Omicidio Giulia Tramontano, ergastolo per Impagnatiello
Per il barman 31enne ergastolo e otto mesi di isolamento in carcere
Ironia amara: oggi, 25 novembre 2024, Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne, si è ritirata in Camera di consiglio la prima sezione della corte d’Assise di Milano per deliberare la sentenza su Alessandro Impagnatiello, il barman 31enne imputato per l’omicidio pluriaggravato della compagna incinta di 7 mesi Giulia Tramontano, l'occultamento del suo cadavere e interruzione non consensuale di gravidanza, è stato condannato all'ergastolo. Uno dei femminicidi che ha maggiormente sconvolto l'opinione pubblica, per efferatezza e crudeltà.
Negli stessi minuti, a Venezia, veniva chiesto l'ergastolo anche per Filippo Turetta.
Come racconta Prima Milano Ovest, Impagnatiello era presente in aula, dove non ha reso dichiarazioni spontanee. Nessuna replica da parte della procura (aggiunto Letizia Mannella e pm Alessia Menegazzo), che ha chiesto per il barman l’ergastolo con 18 mesi di isolamento diurno.
Alessandro Impagnatiello, la sentenza
Un vero e proprio "viaggio nell'orrore", per usare le parole della pm Alessia Menegazzo, orchestrato dal trentunenne descritto come "narcisista, psicopatico e manipolatore", determinato a eliminare i due "ostacoli" che intralciavano la sua affermazione personale. Un piano freddamente premeditato, in cui l'ex barman dalla doppia vita compie un omicidio "brutale" che non lascia spazio a raptus: è la pura "banalità del male" messa in atto.
Secondo l'accusa, Giulia firma "la propria condanna a morte" quando gli rivela di essere incinta. Da quel momento, il comportamento dell'uomo muta: talvolta si mostra un compagno apparentemente affettuoso, ma più spesso agisce come un amante bugiardo e calcolatore. Inizia a somministrare a Giulia veleno per topi con l'intento di provocarle un aborto e, come un abile "giocatore di scacchi", fa la sua ultima mossa. Dopo l'incontro tra Giulia e l'altra donna, cambia tattica e tenta di coprire l'omicidio inscenando una scomparsa.
Tuttavia, l'imputato, giudicato capace di intendere e di volere dai periti incaricati dal tribunale, sottovaluta la determinazione di chi si rifiuta di accettare la sparizione di Giulia. Non considera la paura che non impedisce all'altra donna di raccontare la verità, né il sangue scoperto nel bagagliaio della sua auto. Quattro giorni dopo il delitto, stretto d'assedio da carabinieri e procura, confessa e indica dove si trova il corpo.
Il "castello di bugie" crolla, ma l'uomo continua a indossare una maschera. Durante l'interrogatorio in aula, alterna frammenti di verità a dichiarazioni di "non ricordo", si contraddice, evita di fornire un movente chiaro e si concentra più a giustificare se stesso che a mostrare pentimento verso la famiglia di Giulia: il padre Franco, la madre Loredana Femiano, e i fratelli Chiara e Mario, presenti ancora una volta in aula.
Le telecamere, permesse a partire dall’ultima udienza, hanno ripreso il momento della sentenza, ma non mostreranno l’accusato, il quale, ancora una volta, ha scelto di proteggere la propria immagine.
La pianta dei cancellieri per Giulia e Thiago
Nell'aula della corte d'Assise i cancellieri del tribunale si sono presentati con una pianta, un “pensiero per Giulia e il suo bimbo mai nato”, è scritto sulla confezione, consegnata alla mamma della vittima, Loredana Femiano.
Proprio la signora, a poche ore dalla sentenza, ha scritto sui social:
"Giulia è morta in Italia, anche perché siamo un paese che ha paura delle donne. Il 25 novembre grideremo giustizia per Giulia e Thiago, ma lo faremo per tutte le donne che non hanno più voce. Dove c'è giustizia, c'è futuro. Dove c'è giustizia, c'è speranza per le nuove generazioni, affinché possano vivere in un Paese in cui non si ha paura di essere donne".
Sempre a mezzo social, il padre della vittima, ha chiarito le speranze della famiglia prima del pronunciamento dei giudici:
"Chiediamo con forza che venga applicata la pena massima prevista dalla legge: l'ergastolo. Non solo per rendere giustizia a lei, alla famiglia e al bambino che portava in grembo, ma anche per lanciare un messaggio chiaro e inequivocabile. Questa richiesta non è mossa da vendetta, ma da un profondo senso di giustizia".