"Ma tu ti sei vaccinato?" La domanda che al lavoro non possono farti
"Il datore di lavoro non può acquisire, neanche con il consenso del dipendente o tramite il medico compente, i nominativi del personale vaccinato o la copia delle certificazioni vaccinali".
E' un evergreen che a ondate torna sempre buono quel "Sono solo fatti miei" che un giovane Raz Degan pronunciava a favore di camera in un noto spot degli anni '90. Già, perché forse non tutti sanno che se il vostro capo vi domanda se vi siete sottoposti o meno alla vaccinazione anti Covid è vostro diritto non rispondere e non condividere informazioni sensibili di questa natura sul luogo di lavoro. Permesso accordato dal Garante della Privacy.
Il capo non può chiederti se sei vaccinato
Ormai alla macchinetta del caffè non ci si domanda "dove vai in ferie" bensì "quando hai la seconda dose?". Il tema delle vaccinazioni anti Covid, inevitabilmente, è il caposaldo anche delle conversazioni sul luogo di lavoro: fra chi condivide dubbi e chi chiede a quali effetti collaterali il collega appena vaccinato è andato incontro: "Febbre dopo Pfizer?", "Con Astrazeneca mal di testa?".
Ma una persona ha il diritto di non far sapere sul luogo di lavoro se si è sottoposto all'inoculazione? Sì. A stabilirlo il Garante della Privacy ha pubblicato una serie di indicazioni utili a fare chiarezza sul tema.
Le regole del Garante della Privacy
Nel documento viene spiegato:
"Il datore di lavoro non può acquisire, neanche con il consenso del dipendente o tramite il medico compente, i nominativi del personale vaccinato o la copia delle certificazioni vaccinali. Ciò non è consentito dalla disciplina in materia di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro né dalle disposizioni sull’emergenza sanitaria. Il consenso del dipendente non può costituire, in questi casi, una condizione di liceità del trattamento dei dati. Il datore di lavoro può, invece, acquisire, in base al quadro normativo vigente, i soli giudizi di idoneità alla mansione specifica redatti dal medico competente".
Il Garante ha chiarito inoltre che - in attesa di un intervento del legislatore nazionale che eventulamente imponga la vaccinazione anti Covid-19 quale condizione per lo svolgimento di determinate professioni, attività lavorative e mansioni - nei casi di esposizione diretta ad “agenti biologici” durante il lavoro, come nel contesto sanitario, si applicano le disposizioni vigenti sulle “misure speciali di protezione” previste per tali ambienti lavorativi (art. 279 del d.lgs. n. 81/2008). Anche in questi casi, solo il medico competente, nella sua funzione di raccordo tra il sistema sanitario e il contesto lavorativo, può trattare i dati personali relativi alla vaccinazione dei dipendenti. Il datore di lavoro deve quindi limitarsi attuare, sul piano organizzativo, le misure indicate dal medico competente nei casi di giudizio di parziale o temporanea inidoneità.
Un soluzione che non piace a tutti
Una volta appurato ciò che indica la normativa vigente, restano i dubbi che in molti - anche all'estero - hanno sollevato. Se una cosa abbiamo imparato da questo virus è che "non sono solo fatti nostri". Siamo inevitabilmente concatenati e il nostro stato di salute può essere determinato anche dai comportamenti di una persona che sta per salire su un aereo che ha per destinazione il nostro Paese e vive a migliaia di chilometri da noi. Questo status di inevitabile condivisione porta quantomeno a riflettere sull'opportunità di offrire a chi ci sta a fianco tutte le informazioni necessarie per tutelarsi. Da questi assunti nascono quindi i dubbi circa la legittimità di tutelare prima la privacy di un individuo al posto che condividere informazioni capitali per la tutela della salute. Il Garante non ha dubbi.