MITO DELLA CHITARRA

A tu per tu con Andrea Braido: “Maneskin? Autentici dallo studio al palco, da tempo non succedeva”

A margine della presentazione del nuovo progetto “Vasco in 4” gli abbiamo chiesto qual è lo stato di salute del rock italiano.

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Un talento che non ha bisogno di molte presentazioni. Andrea Braido ha fatto la storia dei dischi e dei concerti più storici di Vasco, ma non s’è fermato lì.

57 anni, cresciuto a Trento, è inevitabilmente diventato un cittadino del mondo e ha suonato con tantissimi grandi, da Zucchero a Ramazzotti, da Jannacci a Patty Pravo.

Gli abbiamo rubato qualche pensiero a margine della presentazione del nuovo progetto “V4”, uno spettacolo la cui data zero è andata in scena venerdì a Vimercate, in Brianza.

L’ultimo lavoro: l’omaggio al cinema “Best Cult”

E’ un’icona rock, ma spazia dalla classica all’improvvisazione ed è maestro di infiniti altri territori: non ultimo ha partecipato alle registrazioni di ben dieci album della mitica Mina, per intenderci…

Il suo ultimo lavoro è un album, “Best Cult”, dedicato alla reinterpretazione delle colonne sonore che più l’hanno segnato fra i classici della storia del cinema.

Di che si tratta?

"Sono sempre stato appassionato anche di cinema, però non in modo maniacale. Mi gusto determinati film, che ormai sono entrati anche nel mio DNA a livello proprio di percezione: un bel disco è come un bel film, da Kubrick a tutti grandi autori italiani e grandi attori, da Mastroianni a Fellini. Ho voluto fare un disco prendendo 13 brani, anche se in realtà tre di questi sono un medley dedicato a Morricone".

"Ho scelto quelli per me più significativi, quindi c'è Missione Goldfinger, che vidi da bambino, e poi c'è Arancia meccanica, la marcia funebre che apre un po’ tutta la situazione del film. E poi c'è Così parlò Zarathustra, fatta più funky rispetto alla versione classica, e ancora i pezzi di Morricone, da Giù la testa a Per un pugno di dollari, a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto".

Quando è stato realizzato?

"Il disco è stato realizzato in pieno periodo pandemico, quindi a distanza, e l'unico strumento che io non suono è la batteria. Ho suonato il pianoforte, la melodica, le percussioni, oltre naturalmente a bassi e chitarre: mi sono inventato tutti i modi possibili per portare a termine il disco con quello che avevo a disposizione".

Il rock in Italia oggi… solo Maneskin?

Qual è lo stato di salute del rock made in Italy?

"Ci troviamo a mio avviso in un periodo di crisi per la musica, che viene bistrattata e trattata come sciocca, a volte come colonna sonora, a scopo comico… Invece ha un potere molto forte e non è un caso se viene tenuta in sordina, a mio avviso: non per niente l’esplosione massima della musica in anni complicati significava molto anche a livello di pensiero ed energia. Secondo me hanno cercato di inglobarla, facendola sentire di meno, mentre bisognerebbe darle molto più spazio, anche perché dà molto piacere mentale e fisico. Forse hanno paura proprio di questo…"

Eppure, a giudicare da quel che sono riusciti a combinare in pochissimi anni i Maneskin, sembrerebbe un buon momento per il rock tricolore. Qual è il segreto del loro successo planetario?

"I Maneskin non li conoscevo, mi ha affascinato la storia che suonavano per strada e sarebbe stato molto bello che se ne fosse accorto qualcuno già allora… Poi hanno trovato le persone giuste, che credevano in loro e hanno dato loro un grande aiuto. Ci sono molti cantanti nostrani, molto rock, che avevano i numeri per fare delle cose all'estero, al di là della lingua… con i Maneskin sono sicuro che c'è qualcuno che ha creduto in loro in maniera molto convinta".

"Credo ci siano molti giovani che hanno una forte energia L'importante è che una volta arrivati non si modifichino per forza sempre (da parte dei discografici, ndr). I Maneskin da questo punto di vista ben vengano, non solo perché hanno ampliato il discorso dell’inglese, ma poi hanno un suono che realmente si suona così. Dal vivo è quello che si deve sentire e questo non avveniva da tanto tempo".

I Maneskin, fenomeno rock, consacrati da Sanremo: non è un paradosso?

"Sanremo non l'ho proprio guardato, non lo guardo da tanto tempo. Secondo me è diventato un minestrone dedicato ad altro… al gossip, al fashion, si parla troppo poco di musica. E’ diventato un varietà e ha perso molto del suo significato originario.
La musica è una cosa seria ed è molto di più. Basta guardare quanta gente ama ancora i vinili e va a cercarsi i dischi anche dei Led Zeppelin, di Hendrix, di Ray Charles degli Area. Ma è chiaro che questa cosa è molto distante dal concetto di successo legato alla tv…"

Però gli stadi li riempiono ancora i Ligabue e i Vasco…

"Vasco è quello che regge di più perché comunque la sua proposta è ancora molto rock,le sue canzoni sono talmente nell'immaginario e immortali che tutti si possono rivedere in esse: questa è la sua genialità, attraversa tutte le generazioni".

daniele.pirola@netweek.it

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