L’editoriale di Paolo Cancelli, Ministro Integrazione Culturale Nazionale e Internazionale di Meritocrazia Italia.
Nel crocevia storico che viviamo la comunità internazionale è chiamata nuovamente ad interrogarsi sulle proprie fondamenta etiche e giuridiche; riemerge con forza sorprendente l’intuizione – già presente nella grande tradizione del pensiero cristiano e giuridico – secondo cui la vita sociale moderna non può più essere contenuta nei confini di una sovranità concepita come assoluta, autosufficiente e impermeabile. Gli interessi che strutturano la vita dei popoli eccedono ormai da tempo la dimensione nazionale, e richiedono forme nuove di cooperazione che trascendano la logica del potere e della forza per radicarsi, invece, nella solidale ricerca del bene comune universale. La nascita di una comunità internazionale autenticamente giuridica non è soltanto una necessità funzionale all’interdipendenza globale, ma rappresenta il compimento di una maturazione etica dell’umanità, capace di riconoscere come l’unità del genere umano non sia un’astrazione politica, bensì il presupposto ontologico e morale della convivenza tra i popoli. In tale prospettiva, il superamento del dogma della sovranità assoluta dello Stato non equivale a una diminuzione della dignità delle comunità politiche; al contrario, esso costituisce la condizione per liberare gli Stati dalla tentazione dell’autoreferenzialità e per inserirli in un ordine giuridico superiore, orientato non alla mera preservazione degli equilibri di potere, ma alla tutela della fraternità, della pace e dello sviluppo integrale. L’idea di una “comunità internazionale delle forze sociali”, nella quale le nazioni convergono nella gestione condivisa degli interessi comuni, anticipa l’orizzonte delineato dall’attuale dottrina sociale, che vede nella fraternità – come ricorda Fratelli tutti – non una virtù privata, ma un criterio strutturante dell’architettura istituzionale mondiale. La fraternità è principio giuridico prima ancora che esortazione morale: essa conferisce forma normativa all’interdipendenza e trasforma la prossimità globale in responsabilità giuridica reciproca, chiamando gli Stati a concepire la propria politica estera non come difesa competitiva di interessi particolari, ma come partecipazione cooperativa a un destino condiviso. In questo passaggio epocale, la legge morale emerge come la “rupe incrollabile” sulla quale edificare un ordine internazionale nuovo.
La legge morale non è una sovrastruttura emotiva, ma il criterio di razionalità che impedisce al diritto internazionale di ridursi a mera procedura o a fragile compromesso tra interessi. Essa fonda principi imprescindibili: l’uguaglianza giuridica delle nazioni, la loro libertà e indipendenza, la condanna del ricorso alla forza come modalità ordinaria di relazione, la necessità di istituzioni internazionali dotate di reale autorevolezza, la tutela delle minoranze culturali e linguistiche, il disarmo progressivo e reciproco, la giustizia economica e la collaborazione solidale. Tale impostazione non propone un moralismo astratto, ma una vera filosofia del diritto internazionale, nella quale la sovranità viene reinterpretata come servizio alla comunità delle nazioni e come responsabilità verso la pace. Questa architettura normativa trova un corrispettivo straordinariamente coerente nella visione di Populorum Progressio, secondo cui lo sviluppo dei popoli – soprattutto di quelli meno avanzati – è parte integrale della costruzione della pace. Lo sviluppo non è mero progresso economico, ma “promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo”, e dunque presuppone la rimozione di tutte le forme di dominio strutturale, di colonialismo economico, di disuguaglianza sistemica. Il richiamo di Paolo VI alla dimensione mondiale della questione sociale rivela la natura intrinseca del problema: la pace internazionale non può essere garantita finché persistono sistemi economici che producono scarti, disparità e sfruttamento. Il diritto internazionale, pertanto, deve liberarsi da una concezione meramente procedurale e assumere una funzione trasformativa, capace di orientare le strutture economiche globali verso un equilibrio equo, sostenibile e realmente inclusivo. La questione dei rapporti tra nazioni progredite e popoli meno sviluppati acquista, in tale scenario, una centralità giuridica e morale di straordinaria attualità. Il rifiuto dello sfruttamento e dell’imposizione violenta di modelli sociali estranei alla maturazione culturale dei popoli costituisce un imperativo etico prima ancora che politico. Ogni intervento che alteri unilateralmente l’ordine sociale e culturale di un popolo, anche se animato da intenzioni apparentemente civilizzatrici, diventa attentato alla dignità collettiva e genera instabilità, risentimento e regressione. È dunque necessario un paradigma fondato sulla conoscenza profonda delle condizioni spirituali e materiali delle comunità, sull’ascolto autentico e sulla reciprocità: un paradigma che eviti la tentazione tecnocratica di “correggere” dall’esterno il percorso di sviluppo dei popoli e promuova invece la loro capacità di autodeterminazione responsabile.
Qui si inserisce con sorprendente precisione la filosofia del riconoscimento proposta da Ricoeur, che legge la giuridicità come la forma istituzionale della relazione tra identità in reciproca esposizione. Ogni soggetto – individuale o collettivo – si realizza, secondo tale prospettiva, non nell’autosufficienza, ma nell’apertura all’alterità, nella capacità di riconoscere e di essere riconosciuto. Il diritto internazionale, in questa luce, si configura come il grande spazio del riconoscimento reciproco tra popoli, nel quale la sovranità non è negata ma relativizzata in vista della responsabilità condivisa. La dialettica tra identità e alterità diventa criterio per comprendere come la comunità internazionale non sia una somma di Stati autosufficienti, ma una trama di relazioni nelle quali ciascuna entità politica si definisce a partire dalla sua disponibilità alla cooperazione, alla giustizia e alla legittimità condivisa. Il riconoscimento diventa così il cuore dell’ordine giuridico globale: esso fonda la pace, rende possibile la giustizia, apre la strada alla reciprocità e permette di superare la logica del dominio.
Alla luce di questa antropologia relazionale, anche le istituzioni internazionali assumono una funzione decisiva: esse sono, nella visione ricoeuriana, forme strutturate di alterità, luoghi nei quali il sé politico – lo Stato – accetta di confrontarsi con l’altro e di limitare liberamente la propria autonomia in vista di un bene superiore. Non si tratta di mere agenzie tecniche, ma di autentici laboratori della giustizia, chiamati a mediare, interpretare e guidare le trasformazioni globali. La loro autorevolezza deriva non dalla forza, ma dalla capacità di incarnare la logica del dono politico, una sovrabbondanza morale che va oltre la stretta equivalenza delle posizioni e apre alla possibilità di decisioni orientate non al vantaggio immediato, ma alla costruzione di una pace duratura. In tale contesto, il contributo delle religioni non è un elemento decorativo, ma una risorsa antropologica e culturale irrinunciabile. La fede, come ricorda Fratelli tutti, offre una grammatica della pace fondata sulla dignità assoluta di ogni persona e sulla chiamata universale alla fraternità; essa svela l’inconsistenza di ogni ideologia che riduca l’essere umano a mezzo e non a fine. La cristianità, con la sua legge di amore e di universalità, smaschera le derive identitarie, i nazionalismi chiusi, le retoriche dell’esclusione, e restituisce all’umanità la possibilità di concepirsi come famiglia.
Da questa prospettiva scaturisce anche la responsabilità personale: nessun ordine internazionale può essere stabile se non è sostenuto da individui capaci di testimoniare nella vita privata, professionale e pubblica la verità della giustizia e dell’amore. Proprio l’azione personale costituisce l’ultimo, decisivo pilastro dell’edificio internazionale. Senza una rinnovata interiorità, senza una ricomprensione della dignità umana, senza una cultura della responsabilità, ogni istituzione rimane fragile. La pace, infatti, non si costruisce solo nei trattati, ma negli spazi concreti della vita sociale, dove il riconoscimento dell’altro diventa gesto quotidiano e la giustizia prende forma nelle scelte minute della convivenza civile. Tornare alla visione evocata dal magistero non coincide con un ritorno formale alla religione, ma con la riscoperta della verità morale che rende la libertà autentica e la politica responsabile: una verità che riconosce nell’altro non un ostacolo alla propria identità, ma la condizione stessa della sua realizzazione. In tale prospettiva, l’ordine internazionale che oggi si rende necessario non è una semplice riforma procedurale delle istituzioni esistenti, ma un nuovo paradigma antropologico e giuridico. Esso richiede Stati capaci di autolimitazione, popoli educati alla fraternità, istituzioni fondate sulla reciprocità, economie orientate allo sviluppo integrale e individui consapevoli della propria responsabilità universale. Solo un ordine così concepito può garantire una pace stabile, perché fondato non sull’equilibrio della paura, ma sulla solidità della giustizia. Solo un’umanità capace di riconoscersi nella sua comune dignità potrà superare i confini dell’egoismo e far sorgere, nel cuore della storia, una comunità internazionale all’altezza della vocazione universale dell’uomo.