La storia dei referendum abrogativi in Italia: tra precedenti illustri e la sfida del quorum
Dal 1946 a oggi, in Italia si sono tenuti 73 referendum nazionali, di cui 67 abrogativi. Tra questi ultimi, solo 39 hanno superato il quorum

L’8 e il 9 giugno 2025 gli italiani saranno chiamati a votare su cinque quesiti referendari abrogativi, quattro dei quali promossi dalla CGIL e uno da +Europa. I temi riguardano il lavoro e i diritti civili: dalla responsabilità delle imprese per gli infortuni sul lavoro al reintegro in caso di licenziamento illegittimo, dalla reintroduzione delle causali nei contratti a termine fino alla legge sulla cittadinanza.
Ma il vero nodo da sciogliere, come sempre nei referendum abrogativi, è quello della partecipazione. Per essere validi, infatti, devono superare il quorum del 50% + 1 degli aventi diritto al voto, come stabilito dall’articolo 75 della Costituzione. In mancanza, l’esito della consultazione non produce effetti, anche in caso di larghissimo consenso tra i votanti.
Una lunga storia referendaria
Dal 1946 a oggi, in Italia si sono tenuti 73 referendum nazionali, di cui 67 abrogativi. Tra questi ultimi, solo 39 hanno superato il quorum. E di questi, solo 23 hanno visto la vittoria dei “Sì” (cioè l’abrogazione della norma). I restanti 16, pur validi, si sono conclusi con la conferma delle leggi esistenti.
L’età d’oro del referendum abrogativo va dagli anni ’70 alla metà degli anni ’90. Il primo fu quello sul divorzio del 1974, quando l’87,7% degli italiani si recò alle urne per difendere la legge Fortuna-Baslini. Vinse il “No” con il 59,3%. Un'affluenza record, seconda solo a quella del referendum istituzionale del 1946 (89,1%).
Il #2giugno 1946 l’Italia scelse la repubblica con un #referendum. La provincia in cui la #repubblica ottenne la percentuale più alta (88,5%, contro l’11,5% della monarchia) fu Ravenna, mentre per la #monarchia (85,0%, contro il 15,0% della repubblica) fu Lecce. pic.twitter.com/3KuGDWVYwA
— Youtrend (@you_trend) June 2, 2025
Anche negli anni successivi la partecipazione restò altissima: 81,2% nel 1978 (sulla Legge Reale e sul finanziamento pubblico ai partiti), 79,4% nel 1981 (cinque quesiti, tutti respinti), 77,9% nel 1985 (scala mobile), 65,1% nel 1987 (cinque referendum, tra cui tre sull’energia nucleare). Nel 1993 addirittura otto quesiti, tutti approvati con un’affluenza del 77%.
Dal 1997 in poi, il panorama cambia radicalmente. I referendum iniziano a fallire sistematicamente sul fronte della partecipazione. Il primo flop fu proprio nel 1997: sette quesiti, affluenza al 30,2%. Da allora solo uno, nel 2011, ha superato il quorum. Nel 1999 l’affluenza si fermò al 49,6%. Nel 2000 solo il 32%, e andò anche peggio nel 2003 (25,5%), nel 2005 (25,5%) e nel 2009 (23,3%).
Il ‘caso Craxi’: quando "andate al mare" fu un boomerang
Uno degli episodi più noti nella storia referendaria risale al 1991, quando si votò per ridurre da tre a una le preferenze da esprimere alle elezioni della Camera. Il segretario del PSI, Bettino Craxi, definì il referendum "un caso di ubriachezza politica molesta" e invitò apertamente gli italiani "ad andare al mare" anziché alle urne, auspicando il fallimento del quorum.

Ma l’effetto fu l’opposto: votò il 62,5% degli aventi diritto e il 95,6% barrò il "Sì", il dato più alto mai registrato per un referendum. Quella consultazione, oltre a sancire la sconfitta di Craxi, secondo molti storici, segnò simbolicamente l’inizio della crisi della Prima Repubblica.
Il successo del 2011: l’acqua pubblica come simbolo
L’unica eccezione negli ultimi 28 anni è rappresentata dai referendum del 2011, promossi da comitati civici e sostenuti dal centrosinistra. Quattro quesiti, tra cui quello sulla gestione pubblica del servizio idrico, mobilitarono 27 milioni di italiani. L’affluenza raggiunse il 54,8%, e i “Sì” vinsero con percentuali bulgare (tra il 94 e il 95%). Oltre alla vittoria tecnica, quella consultazione fu un forte messaggio politico contro il governo Berlusconi.
Il referendum delle trivelle e il precedente di Renzi
Il referendum abrogativo più recente è però quello del 2016. Il quesito riguardava le trivellazioni in mare entro le 12 miglia, promosso da diverse Regioni. L’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi invitò esplicitamente all’astensione, bollando l’iniziativa come “una bufala” e una strumentalizzazione contro il governo. Come nel caso Craxi, il messaggio fu chiaro, ma stavolta funzionò: l’affluenza si fermò al 31,2% e il referendum fu dichiarato nullo, nonostante l’85,85% di voti favorevoli all’abrogazione.

Referendum 2025: la sfida del quorum
Ora ci risiamo. L’8 e 9 giugno 2025, con cinque nuovi quesiti, si scriverà un altro capitolo della storia referendaria italiana. I temi toccano il lavoro, i diritti e la cittadinanza, ma il principale avversario resta l’astensionismo.

Con una media storica del 52% di affluenza ai referendum abrogativi (media abbondantemente gonfiata dagli anni ‘70 e ‘80), oggi raggiungere il 50% + 1 sembra quasi una missione impossibile. I tempi del divorzio e della scala mobile sono lontani, e anche la mobilitazione vista nel 2011 pare irripetibile.
Tra appelli all’astensione più o meno espliciti, propaganda “contro” piuttosto che “per” e una disaffezione crescente verso la politica, il referendum rischia di diventare uno strumento svuotato.