"quadro poco chiaro"

Gaza, perché gli Emirati Arabi Uniti non vogliono partecipare alla Forza Internazionale di Stabilizzazione

Abu Dhabi frena: mancano chiarezza, garanzie politiche e un mandato definito per una missione che rischia di trasformarsi in un conflitto aperto

Gaza, perché gli Emirati Arabi Uniti non vogliono partecipare alla Forza Internazionale di Stabilizzazione

Gli Emirati Arabi Uniti hanno preso le distanze dal piano internazionale proposto dagli Stati Uniti per la stabilizzazione della Striscia di Gaza. A dichiararlo è stato il consigliere presidenziale Anwar Gargash durante un forum ad Abu Dhabi:

“Gli Emirati Arabi Uniti non vedono ancora un quadro chiaro per la forza di stabilità e, in tali circostanze, probabilmente non parteciperanno a una simile forza”.

Una frase che riassume, in modo diretto ma significativo, il punto di vista emiratino: la missione immaginata da Washington è troppo vaga, troppo rischiosa e politicamente incerta per meritare un coinvolgimento militare.

Una forza internazionale senza contorni precisi

La proposta americana prevede la creazione di una Forza Internazionale di Stabilizzazione (ISF), incaricata di prendere il controllo di Gaza dopo un cessate il fuoco e di garantire la sicurezza fino alla completa demilitarizzazione della Striscia. In teoria, la missione dovrebbe durare due anni, fino al 31 dicembre 2027, con un mandato approvato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Perché gli Emirati Arabi Uniti non vogliono partecipare al piano per Gaza
Macerie a Gaza

Il problema, sottolineano gli Emirati, è che non esiste ancora un quadro definito. Non sono chiare le regole d’ingaggio, la catena di comando, né la suddivisione delle responsabilità tra i paesi partecipanti. Senza un piano preciso, ogni intervento rischia di trasformarsi in un’operazione dal destino incerto, con enormi costi politici e militari.

Per Abu Dhabi, prima di impegnare le proprie forze armate in un contesto instabile, servono garanzie concrete: su chi guida, chi decide e con quali obiettivi finali.

Dal peacekeeping al peace enforcing

A differenza delle tradizionali missioni ONU, spesso limitate a monitorare tregue già in vigore, l’ISF avrebbe compiti molto più impegnativi. Non solo dovrebbe mantenere la pace, ma anche imporla, disarmando Hamas e gli altri gruppi armati, distruggendo infrastrutture militari e addestrando una nuova forza di sicurezza palestinese.

Perché gli Emirati Arabi Uniti non vogliono partecipare al piano per Gaza
Hamas

La risoluzione proposta concede alla forza internazionale la possibilità di usare “tutte le misure necessarie” — una formula diplomatica che autorizza, di fatto, l’uso della forza militare.

Si tratta quindi di un’operazione di peace enforcing, una “imposizione della pace” più che una sua tutela.

Come ha osservato il re Abdullah II di Giordania, “se cominciamo a fare pattugliamenti armati di Gaza, questa non è una situazione in cui un paese vuole trovarsi coinvolto”.

Gli Emirati condividono questa valutazione: una missione con un mandato così aperto espone i soldati a scontri diretti, in un ambiente urbano denso e pericoloso. Non è, insomma, una semplice operazione di polizia internazionale.

Un contesto politico frammentato

Un altro elemento che spinge Abu Dhabi alla prudenza è la fragilità politica del progetto. Non è ancora chiaro quali paesi vi prenderanno parte, né chi la guiderà. L’Egitto, secondo alcune indiscrezioni, potrebbe assumere il comando operativo, ma nel frattempo emergono divergenze sulle presenze di altri attori regionali.

Israele si oppone all’eventuale partecipazione della Turchia, per motivi politici e strategici, mentre Ankara resta tra i principali candidati a inviare truppe. In questo scenario di tensioni e rivalità, gli Emirati — che negli ultimi anni hanno costruito relazioni delicate sia con Israele sia con gli Stati Uniti — non intendono esporsi a una missione che potrebbe metterli in conflitto con partner chiave o rivali regionali.

Un ulteriore elemento di incertezza riguarda i principali alleati internazionali. Gli Stati Uniti, pur essendo promotori del piano, hanno chiarito fin da subito che non invieranno soldati sul terreno, limitandosi a supporto diplomatico e politico. Questa assenza di un “capofila militare” riduce la sicurezza percepita dai paesi coinvolti e aumenta i rischi per chi dovesse effettivamente dispiegare truppe.

Anche l’Italia ha espresso disponibilità a partecipare, ma soprattutto con compiti umanitari o logistici, e non direttamente in operazioni militari attive.

La posizione emiratina: sostegno politico, non militare

Gli Emirati puntano, piuttosto, a essere attori diplomatici e finanziari, non protagonisti militari in conflitti di lunga durata. Negli ultimi anni gli EAU hanno investito in progetti di aiuto umanitario, ricostruzione e cooperazione economica nei Territori palestinesi, preferendo la leva economica a quella bellica. Partecipare a una missione armata — con rischi elevati e scarsi margini di controllo — contrasterebbe con questa strategia.

Inoltre, il piano statunitense non menziona la creazione di uno Stato palestinese, obiettivo che per molti paesi arabi rimane centrale. Una forza che imponga l’ordine senza prospettiva politica rischia, secondo la visione emiratina, di congelare il conflitto piuttosto che risolverlo.