CRISI SISTEMICA

Ex Ilva: cassa integrazione per 3.926 lavoratori. I sindacati: "Non devono pagare i lavoratori"

Il grave incendio del 7 maggio ha provocato un drastico dimezzamento della produzione. Immediata la reazione di sindacati e opposizioni

Ex Ilva: cassa integrazione per 3.926 lavoratori. I sindacati: "Non devono pagare i lavoratori"
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Acciaierie d’Italia, in amministrazione straordinaria, ha comunicato ufficialmente ai sindacati la richiesta di cassa integrazione per 3.926 lavoratori, di cui 3.538 impiegati nello stabilimento ex Ilva di Taranto, il più colpito dalla crisi in corso. La richiesta, formalizzata nella mattinata di lunedì 13 maggio 2025 nel corso di una videoconferenza con i rappresentanti sindacali, arriva pochi giorni dopo il grave incendio del 7 maggio, che ha coinvolto l’altoforno 1 (Afo1), causando danni ingenti, il sequestro dell’impianto da parte della Procura e un drastico dimezzamento della produzione.

Oltre ai lavoratori di Taranto, la richiesta di cassa integrazione riguarda anche 178 dipendenti del sito di Genova, 165 di Novi Ligure e 45 di Racconigi, segnando un raddoppio rispetto ai livelli attuali e quasi mille unità in più rispetto a quanto previsto dall’accordo di marzo nel Piano di Ripartenza.

Il disastro dell’altoforno 1 e l'attività produttiva compromessa

L’incendio del 7 maggio, originato dallo scoppio di una tubiera, ha portato la Procura di Taranto a sequestrare l’Afo1 senza facoltà d’uso, nell’ambito di un’inchiesta che ha già portato all’iscrizione nel registro degli indagati di tre dirigenti aziendali: il direttore generale Maurizio Saitta, il direttore dello stabilimento di Taranto Benedetto Valli, e il responsabile dell’area altiforni Arcangelo De Biasi. Le accuse ipotizzate includono omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro, getto pericoloso di cose e, per uno degli indagati, anche mancata comunicazione in base alla legge Seveso sull'incidente rilevante.

Secondo quanto riferito dall’azienda, i ritardi nelle autorizzazioni della Procura per le attività di messa in sicurezza hanno impedito l’attuazione delle normali procedure di colaggio dei fusi, rendendo l’altoforno non riavviabile prima della fine dell’anno, con un costo stimato di decine di milioni di euro. Resta operativo solo l’altoforno 4, mentre l’Afo2 non tornerà in funzione prima di diversi mesi.

Adolfo Urso

Il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ha confermato il grave impatto dell’incendio sul futuro dell’impianto.

"Purtroppo l’autorizzazione è stata data troppo tardi e ha compromesso l’attività produttiva dell’Afo1", ha dichiarato Urso a Radio24. "Non ci sarà più la possibilità di riprendere un livello produttivo significativo come previsto nel piano industriale, che puntava alla piena decarbonizzazione mantenendo una transizione occupazionale".

Sul fronte della possibile cessione dell’impianto agli imprenditori azeri di Baku, il ministro ha precisato che il negoziato è ancora in corso, ma ora si trova "ai nodi cruciali".

Sindacati e opposizioni insorgono: "I lavoratori non devono pagare"

La reazione di sindacati e opposizioni è stata immediata e dura. La Fiom-Cgil ha dichiarato di non accettare percorsi di cassa integrazione senza "alcuna chiarezza sulle prospettive future dell’ex Ilva".

Secondo il segretario generale Michele De Palma, "non possono essere sempre i lavoratori e i cittadini di Taranto a pagare", sottolineando l’urgenza di risorse certe per far ripartire la produzione e portare avanti la decarbonizzazione.

Michele De Palma numero uno della Fiom-Cgil
Michele De Palma, segretario generale Fiom-Cgil

Anche la coordinazione nazionale siderurgia della Fiom, Loris Scarpa, ha condannato la scelta dell’azienda di procedere con la CIG "senza un confronto trasparente e condiviso". I sindacati denunciano inoltre il rischio concreto di una perdita definitiva di tutele salariali e occupazionali.

Sul fronte politico, la capogruppo al Senato di Italia Viva, Raffaella Paita, ha parlato di una situazione "drammatica" e ha chiesto le dimissioni del ministro Urso, accusandolo di aver gestito in modo disastroso l’intera vicenda: "Con che faccia viene oggi a dirci che l’azienda va verso la chiusura e che ci saranno altre perdite occupazionali?".

Verso una crisi sistemica

A complicare ulteriormente la situazione, nei giorni scorsi la Commissione europea ha aperto una nuova procedura di infrazione contro l’Italia per il mancato recepimento della direttiva Ue sulle emissioni industriali. Bruxelles contesta all’Italia di non garantire il rispetto delle norme europee sull’inquinamento, con "gravi conseguenze per la salute umana e per l’ambiente". Il governo ha ora due mesi di tempo per rispondere, prima che la Commissione possa emettere un parere motivato.

Il blocco dell’Afo1 e la produzione ridotta al minimo (con soli 2.680 cassintegrati a Taranto su meno di 8mila lavoratori attivi) rischiano di compromettere l’intero impianto industriale e occupazionale. Secondo fonti interne, nella peggiore delle ipotesi si potrebbe arrivare a 5.500 lavoratori in cassa integrazione, con la chiusura temporanea di stabilimenti come quello di Novi Ligure.

Una situazione allarmante che i sindacati giudicano "al limite del collasso". E mentre si attende l’ufficializzazione della richiesta di CIG al Ministero del Lavoro (prevista tra il 14 e il 16 maggio), resta la sensazione di trovarsi sull’orlo del baratro.

"C’è un altoforno che va, uno fermo, e un altro fuori uso per mesi", ha concluso De Palma. "Non ci resta che affrontare questa crisi con la massima trasparenza e coesione, ma servono fatti. E subito".

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