RETROSCENA

Caso Garofani: in un Paese normale il consigliere del Quirinale si sarebbe già dimesso

E gira nemmeno troppo incontrollata la voce di un altro appuntamento conviviale in cui un gruppo di "amici" ha ipotizzato di portare al Quirinale Pierferdinando Casini

Caso Garofani: in un Paese normale il consigliere del Quirinale si sarebbe già dimesso

Se sulla questione venisse interpellato Massimo D’Alema sapremmo (già forse) quale sarebbe la sua risposta:

“Ah, se fossimo un Paese normale…”.

Eh sì, perché ormai sul caso Garofani iniziano a pensarlo e dirlo un po’ tutti nemmeno troppo a bassa voce:

“In un Paese normale il consigliere del Quirinale si sarebbe già dimesso”.

La cena in terrazza, lo “scossone” al Governo: una storia tutta italiana

La vicenda è ormai nota (quasi) a tutti anche per la clamorosa eco e il polverone di polemiche che ne è seguito.

Con sullo sfondo anche la location che ha ospitato il tutto che già basterebbe a regalare suggestioni.

Quella Terrazza Borromini, con vista su piazza Navona, così amata dalla Roma (e non solo) che conta e resa ulteriormente celebre dal film La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino.

Terrazza Borromini

E’ lì durante che si è tenuta una cena (o apericena) tra amici, romanisti, legati da rapporti che vanno dalla politica all’economia.

Una cena appunto tra “romanisti” perché l’occasione era ricordare l’anniversario della morte di Agostino Di Bartolomei (storico capitano della Roma di metà anni ’80, l’evento conviviale è stato organizzato dal figlio) e mettere in calendario qualche possibile iniziativa in sua memoria.

Agostino Di Bartolomei

Ma, come sappiamo, tra uno spritz e uno stuzzichino, si è andato oltre. 

Alla cena in memoria del campione il ribaltone al Governo

Come ormai altrettanto noto, tra gli invitati, c’era Francesco Saverio Garofani, consigliere del Quirinale e segretario del Consiglio supremo di Difesa, ex parlamentare dem per tre legislature.

Piano contro Meloni, in FdI Fazzolari smentisce Bignami: "Mai dubbi su Mattarella"
Francesco Saverio Garofani

Ecco allora che dopo il ricordo di Di Bartolomei e qualche idea messa sul tavolo per celebrarlo a distanza di anni, secondo le ricostruzioni nel corso della cena ci sarebbero stati ragionamenti “politici” affacciati su scenari istituzionali.

Su tutti l’ormai famoso “scossone” al Governo e poi le alchimie per la formazione e la messa in rampa di lancio di una grande lista civica nazionale per arginare Giorgia Meloni.

Uno scenario riportato non senza polemiche creando un vero e proprio caso nazionale dal quotidiano La Verità diretto da Maurizio Belpietro.

Maurizio Belpietro

E pochi giorni dopo, una mail anonima è stata indirizzata ad altri giornali con citazioni attribuite a Garofani, riportando quasi parola per parola il testo precedentemente pubblicato da La Verità.

Il mittente della mail era un misterioso “Mario Rossi”, un personaggio chiaramente di fantasia, alimentando sospetti su chi potesse aver registrato le frasi o comunque aver “tradito” Garofani.

Anche perché dagli articoli successivi all’esplodere della vicenda è emerso un vero e proprio clima da spy story: qualcuno parla di registratori sotto il piatto, cimici, persino camerieri sospetti.

Infine, le interrogazioni in Parlamento, la richiesta di chiarimenti, le polemiche e il l’incontro pacificatore tra il presidente Mattarella e Giorgia Meloni.

Cosa sarebbe successo in un Paese normale

Ma riassunta la vicenda, torniamo alla considerazione di fondo che sta invece animando il dibattito di queste ultime ore.

“In un Paese normale il consigliere del Quirinale si sarebbe già dimesso”.

E’ una considerazione significativa perché tocca tre nodi: la responsabilità istituzionale, la trasparenza, e la distanza fra le logiche reali di potere e le “regole non scritte” della morale politica.

Il fatto che Garofani non abbia dato segnali concreti di voler mollare (almeno pubblicamente, e comunque liquidando la vicenda come “una normale chiacchierata tra amici”), e che il Colle per ora l’abbia “salvato”, rafforza l’impressione – per alcuni – di una sorta di doppio standard istituzionale.

Dal suo punto di vista, Garofani sostiene di avere agito “da uomo delle istituzioni” come dalle sue dichiarazioni:

“Ho sempre rispettato il ruolo, non cerco il protagonismo”.

Ma in ultima analisi è innegabile l’imbarazzo creato dal consigliere al “suo” Presidente, ma anche al partito di cui ha fatto parte per tre legislature…

E d’altro canto, l’opposizione – e gran parte dell’arena politica – potrebbe interpretare la sua permanenza come un segnale di arroccamento, ma anche di un universo politico senza regole, di alcun tipo:

“Se non si dimette adesso, che segnale di forza istituzionale dà?”.

L’analisi politica e le implicazioni istituzionali

Il caso Garofani porta dunque a galla il tema del confine fra “relazioni private tra amici” e le responsabilità pubbliche di un consigliere del Colle.

Quando una chiacchierata “in libertà” può trasformarsi in un dossier da guerra politica?

E viene da sé anche la considerazione-riflessione che il Quirinale non è una caserma politica, ma un’istituzione di garanzia.

Se i suoi consiglieri cominciano a essere percepiti come figure attive in manovre politiche (o almeno che non si sottraggono alle polemiche), si rischia di scatenare una crisi di credibilità.

Dalla quale finora il presidente Mattarella è rimasto praticamente “vergine” perché all’unisono e bipartisan sono sempre stati gli attestati di stima e di faro della Repubblica commentando la sua figura.

Come negli anni era avvenuto forse solo con Ciampi, parzialmente con Cossiga, di certo non con Scalfaro e Napolitano.

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella

Cosa è in gioco, Meloni al Quirinale e il sogno al Colle di Pierferdinando…

Ecco allora che il caso Garofani non è solo uno scandalo da tavolata tra amici romanisti, ma un flash che illumina questioni più strutturali sulle relazioni fra potere politico, istituzione presidenziale e media.

La reticenza a dimettersi – nonostante la spinta pubblica – rischia di consolidare una narrativa per cui il Quirinale può tollerare, o almeno gestire internamente, tensioni che in altre democrazie tradurrebbero in crisi di legittimità.

Allora forse il vero nodo non è tanto cosa abbia detto Garofani (anche se è grave), ma cosa si farà ora.

Se non ci sarà un passo indietro, sarà un banco di prova per la tenuta della credibilità istituzionale italiana.

Il tutto mentre il vero interrogativo non è nemmeno tanto la conferma di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi nel 2027 (quasi scontata) quanto il possibile (in molto ritengono probabile) “balzo” al Colle.

Il tutto, mentre incredibilmente gira nemmeno troppo incontrollata la voce di un altro appuntamento conviviale, in concomitanza con l’uscita dell’ultimo libro di Pierferdinando Casini “Al centro dell’Aula”, dove tra i temi “a taccuini chiusi” ci sarebbe stata anche la possibilità, promossa da un gruppo di “amici” di portare al Quirinale proprio Casini…

Pierferdinando Casini