La tregua nella Striscia di Gaza, siglata durante gli accordi a Sharm el Sheikh, resta fragile: segnali di progresso si alternano a tensioni e ripensamenti.

Israele ha sospeso alcune sanzioni previste per il 15 ottobre 2025 dopo la riconsegna di quattro bare da parte di Hamas, ma nelle ore successive fonti di sicurezza israeliane hanno indicato che il varco di Rafah non sarebbe stato riaperto — almeno non immediatamente — perché sono necessari controlli logistici e di sicurezza. Intanto emergono nuove discrepanze sulle identità delle salme degli ostaggi, e tensioni nella politica interna israeliana.
La restituzione delle quattro salme e la reazione di Tel Aviv
La sera del 14 ottobre 2025 Hamas ha consegnato quattro bare che, secondo un comunicato congiunto dell’IDF e dello Shin Bet nei giorni successivi, sono state trasferite alla Croce Rossa e poi riconsegnate alle autorità israeliane. Le forze israeliane hanno riferito di aver ricevuto quei feretri e di averli inviati all’Istituto Nazionale di Medicina Legale di Tel Aviv per l’identificazione, un iter che può richiedere fino a 48 ore.
Le prime identificazioni hanno confermato alcune vittime note alle famiglie: tra i corpi ci sono un soldato giovane, un partecipante al festival Nova e un tassista di Bat Yam; la quarta salma non era ancora stata identificata al momento dei primi comunicati e, secondo gli ultimi sviluppi, non sarebbe un ostaggio israeliano.
Annullamento (temporaneo) delle sanzioni — poi il dubbio su Rafah
Il governo israeliano, alla luce della consegna dei corpi, aveva deciso di annullare le misure punitive previste per il 15 ottobre — misure che avrebbero incluso una limitazione degli aiuti umanitari e la chiusura del valico di Rafah con l’Egitto. La sospensione delle sanzioni è stata riportata dall’emittente pubblica Kan e interpretata come un segnale di buona volontà in un contesto diplomatico teso.
Tuttavia, nelle ore seguenti nuove fonti hanno messo in discussione la possibilità che Rafah venisse effettivamente riaperto subito. Una fonte della sicurezza israeliana ha dichiarato (a mezzo stampa) che “Il valico di Rafah non aprirà oggi”, e che “probabilmente neanche domani, e non si sa quando verrà aperto”, sottolineando la necessità di controlli sul luogo e di un sopralluogo per inviare una squadra di ricognizione. In alternativa, si segnala che circa 600 camion di aiuti starebbero transitando attraverso Kerem Shalom, sempre secondo queste ricostruzioni.

La discrepanza fra i messaggi circolati — Kan che parla di revoca delle sanzioni e possibile riapertura del varco, e altre fonti che invece descrivono un blocco ancora operativo — mette in evidenza quanto la situazione sia fluida: decisioni politiche vengono prese, ma la logistica, la sicurezza e la cautela operativa impongono tempi e verifiche.
Identificazione: un quarto corpo non è di un ostaggio
A complicare ulteriormente la vicenda è arrivata la resa dei conti degli esami forensi: dopo le analisi all’Istituto Nazionale di Medicina Legale, le forze armate israeliane hanno reso noto che “il quarto corpo consegnato a Israele da Hamas non corrisponde a nessuno degli ostaggi”. L’IDF ha ribadito che “Hamas è tenuta a compiere tutti gli sforzi necessari per restituire gli ostaggi deceduti”, sottolineando che la riconsegna completa dei resti è ancora un obbligo del gruppo armato nelle intese in corso.
Questo sviluppo getta nuova ombra sulle trattative: la consegna di salme parzialmente identificate non cancella la posta in gioco — Israele insiste perché siano riconsegnati i corpi di tutti gli ostaggi uccisi, mentre la controparte denuncia violazioni del cessate il fuoco e contesta alcune azioni israeliane.
Le dichiarazioni più forti: Netanyahu, Trump, Ben Gvir
Da Gerusalemme i toni restano duri. Il primo ministro Benjamin Netanyahu, in un’intervista alla Cbs, ha ammonito:
“Se Hamas non accetterà di disarmarsi, si scatenerà l’inferno”. Il messaggio riprende la linea che accompagna il piano in 20 punti varato dall’amministrazione statunitense e sottoscritto — almeno nella forma — anche dalle parti coinvolte: smilitarizzazione della Striscia, blocco del contrabbando e controllo internazionale.

Dagli Stati Uniti, il promotore del piano, Donald Trump, ha ribadito su Truth Social che “Il lavoro non è terminato” e ha chiesto il ritorno immediato delle salme ancora nelle mani di Hamas.
Secondo alcune fonti investigative interne, la “pressione israeliana e quella dei mediatori hanno fatto il loro lavoro e Hamas è andata nel panico”, frase che indica come la diplomazia e la coercizione siano entrambe in campo.
Nel frattempo il ministro alla Sicurezza di estrema destra Itamar Ben Gvir ha rilanciato toni bellicosi:
“Questo terrore nazista conosce solo la forza, e l’unico modo per affrontarlo è cancellarlo dalla faccia della terra”, attaccando duramente Hamas dopo i ritardi nelle consegne. Le parole di Ben Gvir riflettono un’ala politica israeliana determinata a non mostrare indulgenza se gli impegni non saranno rispettati.
Il contesto umanitario: macerie, fame e difficoltà nel recupero dei corpi
Le difficoltà sul campo non si limitano alla politica: la Striscia è devastata. Secondo il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP) più dell’80% degli edifici a Gaza è stato distrutto o danneggiato; nella sola Gaza City la percentuale sale al 92%. L’UNDP parla di una situazione “devastante”, con circa 55 milioni di tonnellate di macerie da rimuovere prima di poter avviare qualsiasi ricostruzione.

Queste condizioni rendono estremamente complesso il recupero dei corpi: il Comitato Internazionale della Croce Rossa avverte che “potrebbero volerci giorni o settimane per ritrovare tutti i corpi sotto le macerie”, e non esclude che alcuni resti non vengano mai rinvenuti.
Anche l’Egitto ha inviato squadre a Gaza per aiutare nella ricerca e nell’identificazione, ma gli sforzi umanitari sono rallentati dalle conseguenze di lunghi mesi di conflitto e dall’instabilità operativa su entrambi i lati del confine.
Che cosa cambia per gli aiuti umanitari
La questione del valico di Rafah è centrale per l’ingresso degli aiuti: uno spostamento nella politica delle aperture o chiusure del varco si traduce immediatamente in più o meno carburante, cibo e medicinali che arrivano nella Striscia.
Nel frattempo, secondo alcune ricostruzioni, molte delle forniture proseguono parzialmente attraverso altri valichi come Kerem Shalom, che continuerebbe a gestire convogli con centinaia di camion in ingresso secondo quanto riportato da osservatori sul campo.
Not Hiroshima, but Gaza. pic.twitter.com/f2uxdHxlEs
— Muhammad Smiry 🇵🇸 (@MuhammadSmiry) October 11, 2025
Cosa succede adesso: diplomazia, condizioni e prospettive
Sul piano diplomatico, la “fase 2” della pace è già in movimento: si lavora sulla sicurezza, sulla gestione amministrativa della Striscia e sulla ricostruzione. Ma molte questioni restano aperte: l’effettiva smilitarizzazione di Hamas, il ritorno e l’identificazione di tutti gli ostaggi morti, la garanzia che la popolazione riceva aiuti in modo continuativo e sicuro, e infine la creazione di istituzioni palestinesi rinnovate e riconosciute.
Le vie d’uscita possibili sono fragili: la consegna completa delle salme potrebbe sbloccare la riapertura totale di Rafah e la normalizzazione degli aiuti, ma la scoperta che una delle bare non corrisponde a ostaggi complica il quadro e alimenta le richieste di chiarimenti da parte israeliana.
Parallelamente, il peso delle dichiarazioni pubbliche — minacce di rappresaglie, richieste di disarmo totale, appelli internazionali per il rispetto dei diritti umani — condiziona le mosse politiche e militari.
La tregua tiene per ora, ma “scricchiola”, mentre la popolazione civile continua a pagare il prezzo più alto tra distruzione, fame e mancanza di servizi.