Simone Moro: pronto per il Manaslu e per il futuro
Dagli inizi sulle montagne di casa alle cime più alte della Terra, passando per i 4000 italiani e le prime spedizioni. L'alpinista bergamasco si è raccontato, tra prossimi obiettivi e il termine della sua carriera.
È stato il primo uomo al mondo, e sarà anche l’unico, a salire quattro 8000 in prime ascensioni invernali. Ha scalato otto dei quattordici 8000 della Terra. È uno dei più grandi alpinisti di sempre, è italiano, è di Bergamo, ma come tutti è partito da zero. Dalle gite in famiglia sulle montagne di casa, iniziando a conoscerle. Poi le arrampicate, scoprendo la passione per la roccia, iniziando a studiarla e a comprenderla. Salendo il Pizzo Coca, il Redorta, il Pizzo del Diavolo e la Presolana, la “sua” montagna, si è preparato per il salto ai 4000 e poi verso gli 8000. Lì ha scoperto il freddo, il gelo, il ghiaccio, il “suo” inverno. Lì è diventato grande e ancora oggi, a 53 anni, Simone Moro è uno dei più forti alpinisti in circolazione, e lo sarà ancora per qualche anno perché di progetti e di sogni da realizzare ne ha ancora tanti.
"Ho ancora tanti sogni"
Dalle gite in famiglia alle arrampicate in solitaria. Così nasce il suo percorso in montagna?
Sì, è iniziato in maniera vacanziera. Con la famiglia ciclicamente si andava in vacanza in montagna e Bergamo, seppur non sia una località tipica di montagna, è affacciata sulle Alpi e sulle Prealpi Orobie. Quindi le prime gite vacanziere o del fine settimana erano sulle montagne di casa. Io nasco come rocciatore e la prima volta che arrampicai andai a quella che allora (inizio anni ’80) era la palestra di arrampicata più famosa della bergamasca: la Cornagera. Mi portò mio padre e lì mi innamorai della roccia. Cominciai a fare il rocciatore seppur con il mito alpinistico, e in parte arrampicatorio, di Reinhold Messner. Facevo anche cascate di ghiaccio e per cinque anni feci solo gare di arrampicata sportiva, ma nel ’92 partii per la mia prima spedizione e decisi di orientare i miei interessi sull’alpinismo.
Quali sono le cime del territorio che più frequentava?
Quando si parlava di vie di arrampicata, le vie più simili a quelle delle Dolomiti aperte da Messner e da tanti altri come lui e prima di lui, frequentavo la Presolana. La parete Nord stata la mia prima grande parete di casa. È di sicuro la parete più imponente e alpinistica delle Orobie, ce ne sono di più alte, ma la qualità della roccia non è così bella e non c’è questa esplosione di verticalità. Sulla Presolana mi affilai le dita e affinai la tecnica di apertura di vie dal basso ad alta difficoltà. Prima del ’92 aprii quelle che sono ancora oggi tra le due vie più difficili della Presolana: dal basso, senza uso del trapano, con chiodi tradizionali o con spit che piantavo a mano appeso a dei clip, diciamo in un modo che poi divenne moderno e che poi si è evoluto nel tempo. La Presolana non posso non definirla la mia montagna per antonomasia.
Ogni tanto ci torna per allenarsi?
Ci torno non più frequentemente come una volta perché ho la possibilità di viaggiare di più rispetto allora. Quelli erano tempi in cui avevo appena preso la patente o andavo in giro in motorino e quindi le montagne di casa erano anche il confine degli spazi facilmente raggiungibili. Oggi, invece, ci vado anche con l’altra mia professione che è quella di pilota di elicottero: ho la possibilità di vedere da un punto diverso le pareti che per prime mi hanno fatto sognare. Ci torno spesso perché ho un debole per la Presolana ed è facile incontrarmi al rifugio Albani o lì in zona.
Il grande salto
Dai 2000 della zona agli 8000 dell'Himalaya. Come si passa dai primi ai secondi?
Prima di andare in Himalaya avevo già fatto dei 4000: il Monte Rosa, il Cervino, il Monte Bianco, il Monviso. Questo è importante perché c’è gente che sogna l’Everest senza aver fatto un percorso. Tant’è vero che quando sono andato all’Everest, nonostante avessi fatto il percorso di mezzo, sono stato male per un errore mio: non dedicai così tanto tempo all’acclimatamento e presi un edema cerebrale. La seconda spedizione invece la feci in invernale, che poi diventerà la mia specialità, sull’Aconcagua (6961m s.l.m.) e mi servì per tarare un po’ il tiro. Poi nel ’96 divenni guida alpina e appresi anche da un punto di vista didattico quanto è importante compiere questo percorso che ti conduce dal tuo sogno alla tua vetta.
Quando ha iniziato a pensare che l'alpinismo poteva essere la sua strada?
Quando ho iniziato a fare arrampicata sportiva ho cominciato a diventare un semi professionista. La Camp, la Cassin, La Sportiva, Longoni Sport furono tra le mie prime aziende che mi han dato fiducia. A quei tempi però vivere di arrampicata sportiva era difficile. Il fatto di diventare guida alpina fu il piano B. Volevo diventare un professionista e per farlo traghettai la maniacalità degli allenamenti che avevo preso nell’arrampicata sportiva. Non ero il classico alpinista che si prendeva lo zainone e andava a farsi le camminate. Portai tra i primi la mentalità di prepararsi come un arrampicatore sportivo: correre, ripetute in salita, controllare il peso, l’alimentazione, non caricarsi di grandi pesi che spaccavano schiena e ginocchia. E questo approccio mi ha permesso di crearmi la fortuna per gli anni a venire a livello di infortuni: non c’è un giorno che non mollo, che non mi alleno. Soprattutto adesso con qualche anno in più.
E quindi viene spontaneo chiedere: quanto ancora c’è di carriera per Simone Moro?
Una delle cose fondamentali per qualsiasi atleta è l’obiettività e la capacità di proiettarsi nel dopo. Premettendo che sono guida alpina e ho una società di elicotteri, quindi non sono obbligato a fare alpinismo e lo farò finché manterrò questo livello; i sogni che ho sono ancora tanti e ho fatto una selezione: per i prossimi tre/quattro anni voglio continuare. E in questi anni voglio realizzare alcuni dei più grandi sogni che ho in testa. Ho già il progetto per la fine di quest’anno, ho già i progetti per l’anno prossimo.
La prossima spedizione
Il progetto di quest’anno: si torna al Manaslu?
Sì, partirò a dicembre. Non è una montagna impossibile. Anche il Nanga Parbat mi ha respinto tre volte. È la prova provata che montagne facili non ce ne sono. E che quando non ci sono le condizioni non si riesce a salire neanche il Manaslu. E con me quest’anno (nella spedizione di gennaio e febbraio del 2021, ndr) c’erano degli sherpa che lo avevano salito tre mesi prima. È la prova che l’inverno è completamente un’altra cosa.
Se dovesse dare un consiglio a chi come lei vuole diventare un alpinista professionista?
Non privarsi del percorso. Oggi c’è la tendenza a bruciare le tappe: oggi voglio diventare un alpinista e domani parto per l’Everest. Privarsi del percorso vuol dire non vivere un’esperienza stratosferica, e divertente tra l’altro. Il percorso è la felicità e se deleghi la tua felicità alla destinazione quel giorno che ti eri prefissato non arriverà mai. Poi posso dare un consiglio pratico: non basta il sogno. Il sogno è gratis, dal sogno deve seguire un’intenzione che deve essere dichiarata, “voglio fare l’alpinista” così ti metti da solo con le spalle al muro e ti sproni per realizzarlo.
Ha sempre avuto una vocazione di "talent scout". Sia Denis Urubko che Tamara Lunger erano giovani talenti quando li ha presi con lei nelle spedizioni. Questa potrebbe essere la base per un futuro come "allenatore" o "mentore"?
Mi vedo più come una persona che ha il naso di capire le individualità che possono diventare grandi. Come allenatore non mi ci vedo molto, anche se per esempio nei paesi dell’Est quando uno è stato un forte alpinista diventa un “coach”. Ci vuole una predisposizione e un dono che è quello del saper insegnare. Io ho visto che quando mi metto ad insegnare alle persone ce l’ho perché deriva anche dal mio percorso formativo: sono laureato in Scienze Motorie, conosco la scienza dello sport. Però ho un problema, io sono un frontline, quindi non vedo questa soluzione nel breve termine ma vedo questa abilità che ho sempre avuto.