Studio della Cgil

Aumento età pensione: quanto dovrà lavorare di più chi guadagna di meno

Una beffa che rischia di coinvolgere circa 5 milioni di italiani, in particolare donne e giovani

Aumento età pensione: quanto dovrà lavorare di più chi guadagna di meno

L’aumento dell’età pensionabile in Italia sta diventando un problema concreto, soprattutto per chi percepisce redditi bassi. Secondo uno studio dell’Osservatorio Previdenza della CGIL, a partire dal 2028 i lavoratori più poveri rischiano di dover lavorare fino a cinque mesi in più per raggiungere il minimale contributivo necessario alla pensione. Un fenomeno che potrebbe coinvolgere circa 5 milioni di italiani, pari a quasi un terzo dei dipendenti privati.

Aumento automatico dei requisiti: cosa prevede la legge di Bilancio

L’articolo 43 della Legge di Bilancio prevede un aumento graduale dei requisiti pensionistici:

  • +1 mese dal 2027
  • +3 mesi dal 2028
  • +5 mesi dal 2029
  • +13 mesi nel 2040
  • +23 mesi nel 2050.

Questi incrementi si aggiungono ai requisiti attuali: 67 anni di età e 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini, 41 anni e 10 mesi per le donne. La conseguenza? I lavoratori a basso reddito, che spesso hanno contratti brevi o part-time involontari, dovranno lavorare mesi aggiuntivi solo per mantenere il diritto alla pensione.

Chi rischia di più: lavoratori poveri, giovani e donne

Lo studio evidenzia come 5,1 milioni di dipendenti privati non riescano a maturare un anno pieno di contributi. Questo accade soprattutto per chi ha contratti spezzettati o retribuzioni inferiori al minimale contributivo, pari a 12.551 euro nel 2025.

I più penalizzati sono:

  • Giovani, che entrano nel mercato del lavoro con contratti brevi e stipendi bassi (20-24 anni: circa 11.882 euro annui)
  • Donne, maggiormente coinvolte nel part-time involontario (49% delle lavoratrici contro il 21% degli uomini).

Il risultato è una carriera contributiva più fragile, che rende più difficile raggiungere la pensione nei tempi previsti.

Effetti concreti: quanto si dovrà lavorare in più

Secondo la CGIL, il nuovo meccanismo di adeguamento all’aspettativa di vita avrà effetti significativi sui redditi bassi:

Il paradosso è evidente: più il salario è basso, meno ogni mese di lavoro “vale” ai fini della pensione, e più mesi di lavoro saranno necessari per adeguarsi agli incrementi previsti.

L’aumento del minimale contributivo: un ulteriore ostacolo

Dal 2022 al 2026 il minimale contributivo è cresciuto del 16,5%, molto più della crescita dei salari. Senza rinnovi contrattuali e aumenti legati all’inflazione, anche chi lavora tutto l’anno rischia di “perdere” settimane di contribuzione utili alla pensione. Tra il 2023 e il 2026, un lavoratore con reddito invariato potrebbe perdere oltre 5 mesi di pensione futura, pur avendo lavorato ogni giorno.

La posizione della CGIL

Lara Ghiglione, segretaria confederale della CGIL, sottolinea:

“Questo Governo aveva promesso il superamento della legge Monti-Fornero e il blocco dell’adeguamento automatico dei requisiti dal 2027. In realtà, l’articolo 43 conferma l’aumento dei requisiti, scaricando la sostenibilità del sistema su chi ha meno tutele, spesso giovani e donne in part-time.”

Ezio Cigna, responsabile delle politiche previdenziali della CGIL nazionale, evidenzia che per chi percepisce 5.000 euro annui, i tre mesi aggiuntivi previsti nel 2028 richiederanno quasi due mesi di lavoro in più. Nel 2040, oltre 7 mesi, mentre nel 2050 si arriverà a un anno e un mese in più di lavoro.

Una pensione sempre più lontana

La conclusione a cui arriva la Cgil è netta: se non si interviene sul sistema contributivo e sulle politiche salariali, la traiettoria futura è preoccupante: nel 2050 la pensione di vecchiaia potrebbe arrivare quasi a 70 anni, e quella anticipata a oltre 44 anni di contributi. Per chi oggi non riesce a far valere un anno intero di lavoro, la pensione rischia di restare un traguardo lontano e difficile da raggiungere.