La Sirenetta (2023), l'eccesso di politically correct è l'iceberg che affonderà la scialuppa della Disney: l'Irriverente recensione di Simone Di Matteo
La Sirenetta di Rob Marshall e targata Disney è l'ennesimo prodotto della politica di perbenismo ad ogni costo tipica del XXI secolo
"Non importa quanto sia lunga una storia, perché anche una brevissima fiaba può contenere punti di riflessione o rallegrarti la giornata. Basta saperla raccontare" disse una volta lo scrittore italiano Filippo Fabio Pergolizzi. Un'osservazione acuta, soprattutto perché, a pensarci bene, quella del narrare è un'arte che può rivelarsi un'arma a doppio taglio non alla portata di tutti. In un'epoca in cui la quantità e il consenso assumono un'importanza sempre più rimarchevole, a discapito della qualità e del dibattito costruttivo naturalmente, si tende a relegare le "brutture" della realtà e le differenze intrinseche (che non necessariamente costituiscono un male) di cui questa è composta ai margini di qualsivoglia tipo di novella, nella speranza di poter dar vita ad una rappresentazione (opportunamente) migliore del mondo che possa fungere da modello.
Una trovata sicuramente ingegnosa e in linea con il pensiero dell'era moderna, secondo cui le problematiche andrebbero trattate come se non esistessero piuttosto che affrontate e risolte. Peccato solo, però, che chiunque sia dotato di un briciolo di buon senso è in grado di cogliere la creazione fin troppo fittizia (persino nella sua pretesa di verosimiglianza) che ne vien fuori, la quale non è altro se non figlia di quell'eccesso di "politicamente corretto" che oggigiorno la fa da padrone. Una chiara dimostrazione, ad esempio, ci viene data dai cosiddetti live-action della Walt Disney, ultimo dei quali La Sirenetta, che, sebbene veicolino messaggi volti ad appianare il concetto di diversità nella sua accezione più negativa, ottengono a mio avviso un risultato diametralmente opposto.
"La Sirenetta" di Rob Marshall, un naufragio quasi annunciato
Non a caso, nei giorni scorsi, immediatamente a ridosso del suo debutto sul grande schermo, ho avuto la brillante idea (si fa per dire) di andare al cinema per assistere alla proiezione de La Sirenetta di Rob Marshall, remake dell'omonimo film d'animazione del 1989 basato sulla celebre favola del 1837 scritta dal danese Hans Christian Andersen, con l'auspicio, misto ad un pizzico di nostalgia, di poter assistere ad uno spettacolo degno di tale nome. E invece, ma c'era da aspettarselo, mi sono ritrovato di fronte all'ennesimo prodotto della propaganda del perbenismo ad ogni costo e della campagna di buonismo che da un po' di tempo pare aver instillato le proprie radici negli studi della Disney.
Da diversi anni a questa parte, infatti, The Walt Disney Company sembra sprovvista di sceneggiatori e produttori di qualità capaci di ideare progetti di grande rilevanza e altrettanto spessore (se dovesse servirgliene qualcuno, a tal proposito, sono disposto a candidarmi senza pensarci due volte), tanto da essersi vista costretta a dover ripiegare sulla (ri)trasposizione cinematografica di pellicole già distribuite con l'aggiunta di qualche cambio qua e là per renderle più appetibili alle nuove generazioni e conformi alle regole dettate dal politically correct pur con scarsi ed evidenti risultati. Tranne che per quelli al box office, chiaramente. D'altronde, si sa che le ovvietà fanno gola a chiunque!
Basti pensare a Maleficent, dove non ritroviamo più la strega temibile e spietata, bensì una donna logorata dall'amore e dal rancore che si rifà non poco, contrariamente agli intenti che hanno portato alla rimodulazione del suo personaggio, a quell'immaginario di donna che si condanna con forza al giorno d'oggi. Oppure a Crudelia De Mon, in cui l'indomita imprenditrice a caccia di cuccioli di dalmata viene sostituita da una ragazzina impacciata e ambiziosa il cui carattere viene plasmato dalla sua mentore e che niente ha in comune con l'idea di "donna che si è fatta da sola" che si cerca di vendere al pubblico. O ancora all'avviso di "contenuti dannosi" posto nell'incipit di Peter Pan, soltanto perché i nativi americani vengono chiamati “pellerossa” non tenendo conto della Storia in sé e del fatto che agli inizi del Novecento, periodo di pubblicazione della fiaba, i nativi americani venivano ancora chiamati "pellerossa". In altre parole, a quell'infinità di operazioni messe in atto in nome di una "cultura della cancellazione" attualmente in voga che lascia quasi l'impressione, dietro il falso mito dell'inclusione, di voler sfuggire a chissà quali responsabilità.
Eppure, dovrebbe essere risaputo, ciascun film racconta una storia e ogni storia appartiene ad un passato, prossimo o remoto che sia. Non lo si può cambiare né si può condannare chi decide di raccontarlo. Abbiamo commesso errori e suddette storie, che ci piaccia o meno, raccontano di quegli errori. Ed è così, dunque, che arriviamo alla Ariel di Halle Bailey.
Benché l'incarnato dell'attrice poco si addica ad una trama di origini scandinave, forse sarei stato più adatto io per la parte, sullo stra-abusato altare dell'empowerment femminista (che di femminista, perlomeno nel modo in cui viene narrato, non ha un bel niente) e del Black Lives Matter ogni logica viene sacrificata. Ariel e le sue sei sorelle consanguinee costituiscono un mix di etnie che nemmeno nella città più cosmopolita si ravviserebbe e di cui gli ideatori non si sono curati affatto. Sono figlie di una sola madre o di madri differenti?! Poco importa perché, in fondo, siamo comunque tutti uguali. Al contrario del classico intreccio di una favola, poi, la protagonista non è una principessa smarrita da salvare, ma un'eroina non di certo innovativa che si salva da sola e che non ha bisogno del prode eroe Eric.
Anzi, magari farebbe bene a salvarsi finanche da lui dato che qui viene raffigurato al pari di un pesce senza lisca, un po' come quegli uomini senza pa**e che ci capita di incontrare quotidianamente e una delle poche cose del film in questione sulle quali mi sentirei di concordare. Ma questo, purtroppo, non accade. Come se non fosse già abbastanza, il tutto si riduce al classico lieto fine in cui i due, folgorati da un improvviso amore, convolano a nozze. Insomma, roba da XXI secolo, non trovate?! Sebastian, invece, non ha nulla a che vedere con il divertente granchio al quale eravamo abituati. Sorvolando un attimo sulla grafica che lascia alquanto a desiderare e che non lo rende decisamente simpatico, con la voce di Mahmood assomiglia di più ad una trasfigurazione "marina" di Kermit la rana dei Muppet che, ascoltandolo cantare In fondo al Mar, mi ha fatto realmente venir voglia di tuffarmi in un oceano e non essere più ripescato! Per non parlare di Ursula, la cui figura di cattiva più temuta dei mari, al di là dell'impeccabile interpretazione di Melissa McCarthy, è stata irrimediabilmente ridotta a quella di urlatrice circense che pubblicizza pozioni per perdere peso. Roba che farebbe invidia persino a Wanna Marchi!
Per carità, l'atteggiamento della Disney non è assolutamente una novità. Tuttavia, tralasciando la miriade di messaggi inclusivi, talmente tanti da divenire esasperanti, se la pellicola aveva tutte le carte in regola per essere una concreta opportunità per fare la differenza, alla fine, ci ha dato prova di essere solamente l'ennesima occasione mancata!!!