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Gianfelice Facchetti racconta San Siro

Il figlio dell'indimenticabile bandiera neroazzurra Giacinto Facchetti, racconta la magia della "Scala del calcio".

Gianfelice Facchetti racconta San Siro
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La pandemia da Covid-19 ha svuotato gli stadi, in Italia come nel resto del mondo, privando il calcio di quella magia, quell’alchimia che solo decine di migliaia di persone, unite in una comune fede calcistica, sanno trasmettere e far vivere. Una magia che ora, con la riapertura (al 75% degli impianti) potrà iniziare a rivivere.

Gianfelice Facchetti racconta San Siro

Uno dei più affascinanti templi pallonari è senza dubbio lo stadio Giuseppe Meazza in San Siro, inaugurato nel 1926, e che per quasi un secolo ha visto le gesta dei più grandi campioni italiani e stranieri, vissuto le epopee vincenti di Inter e Milan, ma non solo. Perché a consegnare lo stadio alla sua (giusta) leggenda hanno contribuito le centinaia di migliaia di persone che l’hanno vissuto, domenica dopo domenica e nei giorni delle Coppe infrasettimanali, lo hanno  reso vivo  e fatto (letteralmente) vibrare di gioia dopo un gol. Il futuro della "Scala del calcio" oggi, però, appare nebuloso: forte è il dibattito tra chi lo vorrebbe abbattere per costruirne vicino uno più funzionale alle ambizioni - anche economiche - dei due club e chi teme che senza il "Meazza" svanisca anche quella magia che alle sue scalee è legata imperituramente. Riflessioni dalle quali Gianfelice Facchetti, 46 anni, figlio dell'indimenticabile Giacinto, bandiera neroazzurra, è partito per scrivere il suo ultimo libro "C’era una volta San Siro - Vita, calci e miracoli", uscito ad aprile di quest’anno e presentato ieri sera, lunedì 27 settembre 2021, a Milano.

Com’è nata l’idea di scrivere questo libro?

"L’idea è venuta lo scorso anno, con la Piemme e Mondadori. Lo stadio era deserto e senza pubblico e c’era sullo sfondo l’ipotesi di un futuro abbattimento. Ci siamo detti: facciamogli raccontare ciò che ha visto nei suoi quasi 100 anni di... vita. Ho seguito le partite in Tv poi una volta sono tornato allo stadio, quando c’era la possibilità, con un invito. L’impressione che ho avuto è stata... strana, senza ritrovare le persone che conoscevo, è stato come aver già visto tutto e la partita è passata in secondo piano. Mi sono così buttato a scrivere un omaggio storico-sociale su San Siro: da tifoso, in parte, ma facendo un passo in più, esaltando lo stadio come “contenitore sociale” con il Milan primo padrone di casa, sino all’Atalanta che ci ha giocato in Champions League. Senza dimenticare tutti i campioni che ne hanno calcato l’erba".

Che storie racconta il tuo libro? E che messaggio vuole dare?

"C’è stato tantissimo lavoro di ricerca, partito dal primo derby giocato a San Siro per risalire alla prima stracittadina della storia e poi fare un salto in avanti ad altri derby importanti sia per l’una sponda che per l’altra del Naviglio. La storia ha il suo perché ed è per questo che è importante conoscerla e farla conoscere. A volte certi episodi ritornano. Noi siamo i luoghi che viviamo. Lo racconto all’inizio del libro. E lo stadio è di chi lo ha frequentato. Vivendolo, gioendo o piangendo, a volte incazzandoci per una sconfitta, abbiamo elevato gli stadi a “templi sacri” della nostra vita. Allo stadio c’è alchimia e magia e il tempo l’ha amplificata perché quello è un luogo che abbiamo vissuto come la prima casa, la scuola, l’oratorio e il primo campetto dove abbiamo tirato calci a un pallone".

Dell’eventuale abbattimento di San Siro cosa ne pensi?

"Nel libro non prendo una posizione. In questa vicenda ci sono le ragioni del Comune, che è proprietario dell’impianto, ci sono quelle dei residenti di San Siro e così come quelle, legittime, delle due società. Ma sull’ipotesi di abbatterlo e costruirne uno nuovo non c’è stato un vero dibattito, a parte quello che è uscito sui giornali. Perché non è stato chiesto, ad esempio con un referendum, ai cittadini di Milano cosa ne pensano?".

Quando verrà presentato ufficialmente il tuo libro?

"Il 2 giugno abbiamo fatto un incontro, improvvisato, con una trentina di persone sui navigli, non una vera e propria presentazione ufficiale, per via delle restrizioni ancora in corso che la casa editrice rispetta scrupolosamente. Stiamo pianificando appuntamenti a Roma, Napoli, Torino e poi torneremo ancora a Milano".

L’attività teatrale, invece, con la pandemia com’è andata?

"Tutto si è fermato e ho cercato di inventarmi cose a distanza, online, e in quei mesi mi sono buttato sulla scrittura del libro. Tra maggio e giugno di quest’anno siamo tornati in teatro per una settimana “Puskas, chi?”, lo spettacolo che ho scritto e dirigo per l’attore Fabio Zulli, ma ormai la stagione teatrale è finita. Chi va a rinchiudersi in un teatro in un momento in cui stiamo lentamente riassaporando la “libertà” di poter uscire? L’appassionato di teatro sì lo spettatore medio non è ancora pronto. Dovremo un po’ riabituarci a vivere, ritrovare la libertà di stare fuori e quella socialità che la pandemia ci ha tolto a lungo. Servirà del tempo. Mi auguro che la prossima stagione teatrale, quest’autunno, si possa finalmente ripartire perché di materiale da presentare al pubblico ce n’è".

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