Processo Regeni, l'ammissione chiave: "Lo abbiamo fatto a pezzi credendo fosse della Cia o del Mossad"
Il teste ha riferito un dialogo di uno degli imputati che ha sentito in un ristorante a Nairobi nel settembre del 2017 circa l'assassinio del ricercatore friulano
"Lo abbiamo fatto a pezzi, lo abbiamo distrutto".
Così un testimone protetto, ascoltato in aula il 12 dicembre 2024, nel processo per la morte di Giulio Regeni, che vede imputati quattro 007 egiziani per il sequestro e l'omicidio del ricercatore friulano, avvenuto nel 2016 a Il Cairo, in Egitto. Il teste ha riferito un dialogo di uno degli imputati che ha sentito in un ristorante a Nairobi nel settembre del 2017.
Omicidio Regeni, il testimone in aula: "L'abbiamo fatto a pezzi"
Il racconto di quanto avvenne in quei giorni nella capitale egiziana è stato fornito, nel corso dell'udienza del processo a carico di quattro uomini degli apparati di sicurezza egiziani, da un testimone sentito in modalità protetta. Un cittadino keniota che nel settembre del 2017 ascoltò in un ristorante di Nairobi il maggiore Magdi Ibrahim Abdel Sharif, uno degli imputati, rivelare cosa venne fatto a Regeni.
"Sentii dire dal maggiore Magdi Ibrahim Abdel Sharif 'nel nostro Paese abbiamo avuto il caso di un accademico italiano che pensavamo fosse della Cia ma anche del Mossad. Era un problema perché era popolare fra la gente comune. Finalmente l'abbiamo preso: lo abbiamo fatto a pezzi, lo abbiamo distrutto. Io l'ho colpito'".
All'epoca dei fatti il cittadino keniota faceva il venditore di libri e si trovava in quel locale per incontrare un professore dell'università di Nairobi che voleva acquistare alcuni volumi. Sentì due uomini accanto a lui che parlavano.
"Erano seduti un funzionario della sicurezza keniota e un egiziano, sceso poco prima da un veicolo diplomatico egiziano - ha detto davanti ai giudici della Corte d'Assise della Capitale -. Erano a distanza di circa due metri: non c'erano tavoli fra noi. Hanno iniziato a parlare delle elezioni presidenziali in Kenya, parlavano in inglese. Parlavano di tensioni e scontri con la polizia dopo il voto contro la legittimità delle operazioni di voto e di vittime che c'erano state. Criticavano l'Unione Europea che manifestava solidarietà con le proteste. Il funzionario diceva che bisognava restare fermi e che senza ingerenze straniere le forze di polizia avrebbero potuto reprimere 'meglio' le proteste".
Un dialogo andato avanti per 45 minuti.
"Egitto Paese sicuro": i dubbi dei giudici
Dal canto loro i giudici hanno dato il via libera all'acquisizione di una serie di testimonianze di cittadini egiziani che per motivi di sicurezza non potranno venire a Roma. Nell'ordinanza la corte d'assise scrive che sono "numerosi i fatti obiettivi che documentano come la situazione dei diritti civili in Egitto sia ampiamente compromessa". I giudici citano rapporti di Ong, Amnesty International e Human Rights Watch del 2024, così come pronunciamenti del Parlamento europeo e dell'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani.
Viene citata anche la scheda 2024 del Ministero degli Esteri italiano che conclude nel senso che l'Egitto è un Paese sicuro. Si ritengono, tuttavia, necessarie eccezioni per gli oppositori politici, i dissidenti, gli attivisti e i difensori dei diritti umani o per coloro che possono ricadere nei motivi di persecuzione, vale a dire per motivi di opinione politica... indipendentemente dal fatto che il richiedente abbia tradotto tale opinione, pensiero o convinzione in atti concreti".
La giudice ha letto un'ordinanza in cui si acquisiscono gli atti di altri tre egiziani che sostengono di non potersi presentare per paura di ritorsioni nel loro Paese.
La testimonianza precedente
Nel novembre 2024, un altro testimone aveva parlato nell'ambito del processo. Il cittadino palestinese, che era detenuto nello stesso carcere dove venne portato il ricercatore italiano, aveva rilasciato dichiarazioni altrettanto significative:
"Giulio era ammanettato con le mani dietro alla schiena, con gli occhi bendati. Era a circa 5 metri da me. Indossava una maglietta bianca, pantalone larghi e blu scuro. In seguito, l'ho rivisto che usciva dall'interrogatorio, sfinito dalle torture. Era tra due carcerieri che lo portavano a spalla verso le celle. Non era nudo, indossava degli abiti. Insistevano molto con la domanda 'Giulio dove hai imparato a superare le tecniche per affrontare l'interrogatorio?'. Ricordo più volte questa domanda ripetuta in dialetto egiziano o in arabo. Non so se Giulio ha risposto o meno. Insistevano molto su questo punto, erano nervosi. Usavano la scossa elettrica e lo torturavano con la corrente".
Il dolore della famiglia: "Tutto il male del mondo"
Nel corso dell'udienza era stata ascoltata anche la sorella di Regeni, Irene, che visibilmente commossa ha ricordato i giorni del sequestro e del ritrovamento del corpo.
"Ricordo una telefonata di mia madre, mi disse: 'hanno fatto tanto male a Giulio'. La parola tortura però l'ho sentita per la prima volta al telegiornale", ha detto la 32enne.
Parlando di Giulio lo ha descritto come "un ragazzo normalissimo, gli piaceva divertirsi era un esempio per me, il fratellone che dava consigli". E ancora: "avevamo punti di vista diversi sulle cose: lui era un umanista e io una scienziata. Eravamo sempre in contatto sulle cose importanti: ci sentivamo tramite chat e tramite mail. Giulio - ha concluso - è stato sempre appassionato di storia, studiava l'arabo Dopo il corso triennale andò per la prima volta in Egitto. Era aperto a conoscere culture diverse, in particolare quella egiziana: era entusiasta di andare lì, era contento per la ricerca sul campo".
Un ricercatore, appunto, non un agente della Cia o del Mossad.
L'omicidio venne commesso in Egitto tra gennaio e febbraio 2016. Giulio era un dottorando italiano dell'Università di Cambridge. E' staro rapito a Il Cairo il 25 gennaio 2016, giorno del quinto anniversario delle proteste di piazza Tahrir, e ritrovato senza vita il 3 febbraio successivo nelle vicinanze di una prigione dei servizi segreti egiziani. Il corpo presentava evidenti segni di tortura, al punto che la madre lo riconobbe dalla punta del naso e disse di aver visto nel volto martoriato del figlio "tutto il male del mondo".