Massimo Bossetti a Belve Crime: un’intervista che non cambia la verità scientifica
Intervistato da Francesca Fagnani, il muratore ha ribadito la sua presunta innocenza, sollevando ancora una volta dubbi sulla prova regina che ha portato alla sua condanna: il DNA

L’intervista con cui Francesca Fagnani ha inaugurato Belve Crime, ha toccato numerosi punti, alternando momenti di drammatica narrazione personale a confronti serrati con la conduttrice, che non ha mai smesso di riportare il discorso alla concretezza delle evidenze scientifiche e giudiziarie.
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La giornalista ha mantenuto un atteggiamento saldo e rigoroso nel corso dell’intervista, difendendo la verità scientifica e richiamando Bossetti alle sue responsabilità di fronte ai fatti accertati. Ha incalzato, riportando continuamente il focus su ciò che la scienza ha stabilito con chiarezza.
Tuttavia, ci si può legittimamente chiedere quale valore aggiunto abbia avuto questa intervista, dal momento che non sono emerse nuove rivelazioni, né Bossetti ha saputo fornire spiegazioni alternative credibili rispetto alle prove che lo inchiodano. La verità processuale, sostenuta da una prova scientifica solida e validata in sede giudiziaria, resta intatta.
L’intervista, oggettivamente, non sposta nulla di ciò che già si sapeva, ma offre l'opportunità a Bossetti di insinuare teorie del complotto e di affondare - in maniera del tutto indelicata - contro il padre della vittima.

Il DNA e le contestazioni di Bossetti
Il punto centrale dell’intervista resta il DNA. Bossetti ha espresso le sue perplessità sul fatto che la traccia biologica identificata come “Ignoto 1” – poi rivelatasi essere la sua – fosse ancora presente sugli slip e sui leggings di Yara dopo diversi mesi dal delitto.
"È tutto assurdo, anomalo e incompreso", ha dichiarato. Tuttavia, Fagnani ha ribadito con fermezza: "Non per la scienza, capisce? Non per la scienza né per la legge".
Bossetti - in veste inedita di genetista - ha inoltre sottolineato l’assenza del DNA mitocondriale, sostenendo che ciò metterebbe in dubbio la validità dell’accertamento (elemento non veritiero, sulle basi delle evidenze identificative). Ma Fagnani ha prontamente ricordato che "il valore legale e forense ce l'ha il DNA nucleare", ed è proprio quel DNA che lo collega in modo univoco alla scena del crimine. Alla domanda cruciale su come il suo DNA sia finito sugli slip della vittima, Bossetti ha risposto:
"È quello che vorrei capire anche io. Quel DNA non può rappresentarmi. Io Yara non l’ho mai vista".
L’attacco al padre della vittima e il confronto con Fagnani
Un momento particolarmente controverso dell’intervista è stato quando Bossetti ha insinuato sospetti sul padre di Yara, Fulvio Gambirasio, riferendosi a presunte "voci di paese" e raccontando un episodio in cui vide l’uomo in un cantiere poco dopo la scomparsa della figlia.
"Un genitore a cui è sparita la figlia ha più premura a precipitarsi in un cantiere o va in giro a cercarla?", ha affermato Bossetti.

Francesca Fagnani è intervenuta:
"Non può fare nemmeno quella faccia, come fa a interpretare quello che è giusto o non giusto per un genitore a cui è sparita una figlia?".
La narrazione personale: la moglie, il soprannome, il carcere
Nel corso dell’intervista, Bossetti ha ripercorso anche momenti personali dolorosi. Ha raccontato dell'umiliazione pubblica subita in aula durante il processo, quando venne rivelata l'infedeltà della moglie, e del tentativo di suicidio subito dopo.

"Sono stato ritrovato con la testa immersa nel lavandino e una cintura al collo", ha raccontato. Ma anche su questo episodio, Fagnani ha posto una riflessione: "Lei non si ricorda come ha fatto. Le motivazioni possono essere tante. Magari anche in un’altra occasione può essere successo qualcosa di simile".
Bossetti ha respinto il paragone, ma la domanda resta sospesa: come si concilia la rimozione parziale di un gesto così estremo con il racconto lucido della propria innocenza?
Ha parlato inoltre del soprannome "Il Favola", attribuitogli dai colleghi perché spesso si assentava dal lavoro con scuse fantasiose. Una delle bugie, da lui stesso ammessa, riguardava presunti tumori cerebrali, raccontati – ha spiegato – per giustificare le assenze dovute al mancato pagamento dello stipendio.
L’arresto e il (solito) complotto
Bossetti ha definito "disumano" il momento dell’arresto.
"Mi hanno fatto inginocchiare, uno mi ha stretto il collo. Nessuno mi spiegava nulla", ha detto. E ha più volte smentito di aver tentato la fuga, come sostenuto dai carabinieri. Si è poi detto vittima di una giustizia che – a suo dire – non ha voluto percorrere tutte le piste alternative. "Anche io vorrei capire in che modo il mio DNA sia finito sugli slip di Yara", ha ribadito.
L’intervistatrice ha più volte riportato la conversazione ai dati oggettivi: il DNA è stato analizzato, riconosciuto, e identificato in più laboratori e in più fasi del processo. Tutti i tre gradi di giudizio, compresa la Cassazione, hanno ritenuto quella prova inconfutabile. Bossetti, però, continua a chiedere nuovi esami e a sostenere di non aver mai visto Yara in vita sua.
"Se io fossi stato l’autore del delitto, non avrei esitato un secondo a confessare. Non è il mio caso", ha detto, dichiarandosi nuovamente innocente. Ha concluso con parole drammatiche: "Mi sento addosso l’etichetta del mostro, un tatuaggio stampato sulla testa che porterò fino alla fine dei miei giorni".