L'infanticidio di Pedrengo e la donna in carcere per 20 anni accusata (ingiustamente) di aver ucciso i figli: quando le prove fanno la differenza
La sconvolgente vicenda di Monia Bortolotti e le analogie (e le differenze) con quanto accaduto a una madre australiana
Il terrificante fatto di cronaca di Pedrengo, in provincia di Bergamo, ha – come accade in questi casi – sconvolto l’opinione pubblica e suscitato un’ondata fortissima di indignazione e partecipazione da parte dei cittadini.
Una madre accusata di aver ucciso entrambi i propri figli rappresenta, socialmente, un vero pugno nello stomaco, ma – proprio per questo – è fondamentale andarci cauti, come dimostra la clamorosa storia fotocopia avvenuta in Australia dove una mamma – accusata di aver ucciso tutti e quattro i suoi neonati – dopo decenni di carcere (e con l’accusa di essere la peggior serial killer del continente) si è vista restituire la libertà in seguito alla scoperta di un difetto genetico che affliggeva i piccoli, prematuramente scomparsi proprio a causa di quella “tara”, che conduce spesso a morte in culla, oltre che la stessa imputata.
In questo caso, in considerazione della mostruosità delle accuse, è utile affidarsi alla prove scientifiche: proprio quelle che hanno scagionato la madre australiana e, al contrario, potrebbe inchiodare alle proprie responsabilità quella italiana.
Monia: accusata di aver ucciso i suoi figli
Due storie simili, dunque, ma con una differenza sostanziale che deve essere un monito: il caso internazionale è stato costruito su prove “indiziarie”, mentre il dramma bergamasco si fonda su prove scientifiche.
Quando era morta la prima figlia, di quattro mesi, si era pensato a un episodio di morte in culla. Ma quando è successo lo stesso anche al secondo, di due mesi, hanno iniziato a esserci i primi sospetti. E sabato 4 novembre 2023 una donna di 27 anni, Monia Bortolotti, è stata arrestata a Pedrengo, in provincia di Bergamo: è accusata di duplice infanticidio. Avrebbe ucciso entrambi i bambini perché non sopportava il loro pianto.
Le indagini erano iniziate il 25 ottobre 2022 quando la donna aveva chiamato i soccorsi a seguito della morte del figlio, di soli due mesi. Quello che sembrava un episodio di sindrome da morte in culla, però, ha insospettito i Carabinieri per le analogie con quanto accaduto il 15 novembre 2021. Quel giorno la donna aveva perso un'altra figlia, di quattro mesi, in circostanze identiche. Inoltre, il secondogenito, era già stato salvato in extremis poche settimane prima della sua morte, sempre per un principio di soffocamento.
A febbraio 2023 sono arrivati gli esiti dell'autopsia che portava alla luce la circostanza per cui la morte del piccolo era stata causata inequivocabilmente da una asfissia meccanica acuta da compressione del torace. Una situazione ottenuta attraverso un'azione volontaria, che poteva ritenersi frutto di una degenerazione rispetto all'abitudine dell'indagata di stringere fortemente i figli nei momenti critici del pianto, come da lei stessa riferito.
A questo punto, i sospetti sono traslati anche sulla morte della primogenita. Ai tempi dell'avvenimento, non erano sorti particolari sospetti perché il medico intervenuto, in assenza di evidenti segni esteriori visibili all'esame esterno, aveva dichiarato di aver aspirato abbondante latte dal tubo endotracheale della bambina e aveva quindi spiegato che probabilmente la nascita prematura della stessa, nata di 7 mesi, aveva comportato un deficit della deglutizione, così da ritenere che la morte fosse avvenuta per cause naturali, riconducibili alla Sudden Infant Death Syndrome, comunemente nota come "morte in culla".
Le analogie con la morte del secondo figlio hanno però spinto ad approfondire anche questo primo caso. Anche in quell'occasione a casa era presente solo la madre, la quale aveva riferito di aver dato il latte alla bambina e di averla fatta digerire in braccio fino a farla addormentare, per poi constatare, dopo essersi fatta una doccia, che la piccola, distesa nella propria culla, era diventata cianotica e non respirava più. Il Pubblico Ministero aveva quindi disposto, a distanza di quasi due anni dai funerali della piccola, la riesumazione del cadavere della piccola per effettuare l'esame autoptico, che però, per lo stato di conservazione della salma, non ha dato risultati affidabili.
L'indagine è però proseguita e, attraverso numerose escussioni di medici, parenti, specialisti e amici della donna, nonché attraverso l'analisi della corposa documentazione medica acquisita, ha consentito di far emergere gravi indizi di colpevolezza a carico della madre. All'esito degli accertamenti effettuati, il quadro indiziario delineato ha individuato come causa scatenante dei due omicidi l'incapacità della madre di reggere alla frustrazione del pianto prolungato dei bambini, escludendone la possibile connotazione colposa.
Nel corso dell'indagine non è emerso, dall'esame della documentazione sanitaria dell'indagata prima e dopo gli eventi criminosi, un disturbo di tipo psichico della donna, pertanto si ritiene che la stessa abbia agito nella piena capacità di intendere e di volere, apparendo lucida, ben orientata, con grande capacità di linguaggio, razionalizzazione e freddezza, caratteristiche palesate, tra l’altro, nell'organizzazione della propria difesa, dopo aver scoperto di essere sospettata dei due infanticidi.
Nelle ore successive all'arresto sono emersi alcuni post su Facebook di Monia Bortolotti che alla luce dell'esito delle indagini suonano terribili. La mamma raccontava la sua drammatica esperienza sul gruppo Sids Awareness (nel quale si confrontano genitori che hanno purtroppo avuto a che fare con la morte in culla).
Il dramma di Folbigg: scagionata dopo 20 anni da una tara genetica
Clamorosa la somiglianza con la tragedia, umana e giudiziaria di Kathleen Folbigg. Se il suo nome non vi dice nulla, potrebbe essere solamente una questione di tempo: il suo caso, infatti, ha tutti gli elementi per configurarsi come uno dei peggiori errori giudiziari a livello mondiale. Dopo 20 anni di carcere e lo stigma di essere considerata la peggior serial killer d'Australia, la donna - accusata di aver ucciso tutti e 4 i suoi figli - è stata scagionata dalla scienza.
Per lei si sono attivati anche diversi premi Nobel: è stato, infatti, dimostrato che i piccoli - tutti morti in un’età compresa tra i 19 giorni e i 19 mesi negli anni '90 - soffrissero di una mutazione genetica tanto rara quanto letale. Che li avrebbe stroncati. A ulteriore conferma è inoltre emerso che Folbigg fosse portatrice sana della medesima mutazione. La signora, che si è sempre proclamata innocente, potrebbe ricevere un risarcimento record per l'ingiusta detenzione e il calvario giudiziario a cui è stata sottoposta. E’ tornata in libertà nel gennaio 2023.
Prove indiziarie nel caso australiano
Folbigg, incarcerata nel 2003 per l'omicidio di tre dei bambini e l'omicidio colposo del suo primo figlio, Caleb, è stata considerata un mostro per anni. I pubblici ministeri, al suo processo, sostenevano che la madre li avesse soffocati tutti.
L'accusa si è basata sulla tesi del famoso pediatra britannico Roy Meadow:
"La morte di un bambino è una tragedia. Due morti sono sospette. Tre costituiscono omicidio”.
Ecco il punto focale della vicenda e la differenza in queste due pagine di cronaca, entrambe drammatiche. Il caso australiano ha basato la colpevolezza dalla signora sulla base di prove indiziarie: la stanchezza che trapelava dalle pagine del suo diario, il complicato vissuto personale della donna e il fatto che “non possa essere un caso che le siano morti quattro figli di fila”.
Ma le autopsie sui corpi dei neonati non avevano mai confermato che il decesso fosse stato causato da interventi esterni.
Al contrario, appunto, del caso bergamasco, dove si è deciso di mettere in moto la macchina giudiziaria dopo la conferma data dagli esami autoptici sul corpicino del secondogenito. La cui morte prematura risulta causata inequivocabilmente da una asfissia meccanica acuta da compressione del torace.
Tornando a Folbigg, ci sono voluti oltre vent’anni, nonché l’intervento di genetisti di rilievo a livello internazionale per trovare il vero responsabile di questa scia di morte. Si tratta della rara mutazione sul gene denominato Calm2 scoperto nel Dna della mamma, e in quello delle figlie. Queste mutazioni sono associate a patologie che provocano aritmie cardiache e che, nei bambini, possono causare un arresto cardiaco o la morte improvvisa.
La malattia genetica causata dal gene Calm2 è chiamata calmodulinopatia ed è molto rara. Fra i consulenti dei magistrati australiani spicca anche il nome di Peter Schwartz, direttore del Centro per le aritmie cardiache di origine genetica dell’Auxologico Irccs di Milano che ha confermato che le mutazioni sul gene CALM2 influiscono sulla trasmissione del segnale elettrico nel cuore: nel 2013 è stato scoperto e pubblicato che mutazioni su questo gene possono provocare morte improvvisa nei bambini, soprattutto in quelli molto piccoli.
Dopo la clamorosa scoperta la signora è stata riabilitata e tornata libera: ed è passata, da mostro sociale, a vittima. L'Accademia australiana delle scienze ha spiegato che il caso mostra la necessità di una riforma che renda il sistema legale più "sensibile alla scienza”.
Il precedente (sempre australiano) della madre accusata e scagionata
In questa rosa degli orrori, figura – infatti – un’altra clamorosa “svista” giudiziaria, avvenuta sempre in Australia.
Parliamo del caso di Lindy Chamberlain, che nel 1982 fu dichiarata colpevole dell'omicidio della figlia di nove settimane, nonostante la sua affermazione che un dingo avesse preso la piccola nella notte del 17 agosto 1980, durante un campeggio con la famiglia. Il suo corpo non fu mai ritrovato. I suoi genitori dichiararono che era stata portata via dalla loro tenda da un dingo; questa versione non fu ritenuta credibile e, nonostante l'assenza del corpo, del movente e di testimoni, i due genitori vennero processati e condannati per omicidio fino a quando, grazie a un brandello del vestito della bambina ritrovato tre anni dopo vicino a una tana di dingo furono aperte nuove inchieste che portarono all'annullamento della condanna; nel 2012, 32 anni dopo la morte, la versione dei fatti dei Chamberlain fu ufficialmente riconosciuta da un medico legale.
Dopo essere stata rilasciata, Lindy Chamberlain fu risarcita con 1,3 milioni di dollari australiani per ingiusta detenzione e venne emesso un certificato di morte modificato della sua bimba.
Chamberlain, rispetto a Folbigg, venne imprigionata ingiustamente per "soli" tre anni; in proporzione cosa potrebbe toccare alla 55enne appena graziata?
"È impossibile comprendere la ferita che è stata inflitta a Kathleen Folbigg: il dolore per la perdita dei suoi figli, quasi due decenni rinchiusi nelle carceri di massima sicurezza", ha detto il suo avvocato, Rhanee Rego.
Il valore della solidità delle accuse prima dello stigma sociale
E questo, ci riporta dunque, al recente caso italiano. In cui la differenza è soltanto una, ma capitale. La solidità dell’accusa. Se, per via delle cattive condizioni della conservazione della salma della primogenita di Monia Belloni, si rischiava un altro processo con soltanto prove indiziarie; l’autopsia su Mattia, il secondo piccolo, avrebbe invece dimostrato la responsabilità esterna per il decesso. Altro dettaglio non trascurabile: come accennato il neonato era già stato salvato in extremis da un principio di soffocamento. In quell’occasione, durante il ricovero, sarebbe stato sottoposto a esami genetici che avrebbero confermato che si trattava di un bimbo sano; facendo dunque crollare l’ipotesi di malattie preesistenti fatali.
L’ultima parola, circa la reale o meno, colpevolezza di Bortolotti spetterà al processo. Queste storie similari, ma radicalmente differenti, devono essere da monito: quando si apre il giornale e si decide che “sì, questa donna è sicuramente un mostro”, bisogna considerare la solidità del caso accusatorio. E in questo soltanto la scienza può essere incontrovertibile.
Non sono i diari, non sono le depressioni post partum (che non fanno necessariamente di ogni neomamma che ne soffre un’assassina). Non sono le opinioni dei vicini e nemmeno il fatto, come il drammatico caso di Folbigg, le deduzioni statistiche non supportate dai fatti. Sono le prove. Solo e soltanto quelle.
Prima di accanirsi, prima di colpevolizzare o difendere presunte innocenze “a sentimento”, bisognerebbe conoscere i fatti. Queste vicende simili, ma diverse, sono – in tal senso - una crudele lezione di civiltà.