Quella di Lucia Regna avrebbe potuto essere l’ennesima storia di femminicidio: la donna ha infatti rischiato di morire per mano dell’ex compagno. Durante un violento litigio avvenuto nel luglio 2022, l’uomo l’ha colpita con tale brutalità da renderle necessario un intervento chirurgico complesso: i medici hanno impiantato 21 placche di titanio per ricostruirle il volto, compromesso anche da una lesione permanente al nervo oculare.
Nonostante la gravità delle ferite, il tribunale di Torino, lo scorso giugno, ha assolto l’imputato dall’accusa di maltrattamenti, condannandolo invece a un anno e mezzo di reclusione per lesioni. Una pena molto più lieve rispetto ai quattro anni e mezzo chiesti dalla pm Barbara Badellino.
La decisioni dei giudici, interpretata come una giustificazione della violenza a danno della vittima, ha sollevato polemiche accese.
La decisione dei giudici di primo grado
Secondo le motivazioni depositate dalla terza sezione penale – presidente Paolo Gallo, giudici a latere Elena Rocci e Giulia Maccari – le minacce e gli insulti denunciati dalla donna vanno “calati nel loro specifico contesto”, cioè l’amarezza per la fine del matrimonio.
Il pestaggio del 28 luglio 2022, durato circa sette minuti, non sarebbe stato interpretato come un atto di violenza fine a sé stesso ma come “uno sfogo ricondotto nella logica delle relazioni umane”. I giudici scrivono che l’imputato si sentiva “vittima di un torto” a causa della scelta della moglie di separarsi e della presenza di un’altra relazione. Per queste ragioni hanno concesso attenuanti e la sospensione condizionale della pena.
La credibilità della vittima
Vi è, inoltre, una seconda questione. Nelle motivazioni si legge inoltre che il racconto della donna va valutato con “estrema cautela”, perché ritenuto portatore di “macroscopici interessi”. La circostanza fa riferimento alla richiesta di risarcimento da 100mila euro avanzata da Lucia, che dopo l’aggressione non ha più potuto lavorare come ricostruttrice di unghie.

La sentenza sottolinea anche la presunta tendenza della donna a “trasfigurare episodi” di vita familiare, attribuendo loro la natura di maltrattamenti.
La reazione della difesa e della politica
La parte civile, rappresentata dall’avvocata Annalisa Baratto, ha espresso amarezza:
“Non mi stupisco quando le donne mi dicono che hanno perso la forza di denunciare perché temono di finire sotto processo loro”.
La decisione non ha lasciato indifferente la politica. La commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio ha chiesto ufficialmente gli atti del processo. La presidente Martina Semenzato ha dichiarato:
“Prendiamo atto che in certi tribunali il reato di maltrattamenti in famiglia viene ravvisato ancora solo in presenza di abituali violenze fisiche senza considerare che, per la Corte di Cassazione, pari rilevanza assumono la violenza psicologica ed economica. Nessuna ‘umana comprensione’ può giustificare le umiliazioni ai danni della propria convivente”.
Anche il governo si è espresso. La ministra per la Famiglia e le Pari Opportunità, Eugenia Roccella, ha definito la sentenza un segnale preoccupante:
“Dimostra che la cultura che dobbiamo contrastare si è insinuata anche fra coloro che dovrebbero contribuire a reprimere questi fenomeni”.
Il ministro per gli Affari regionali, Roberto Calderoli, ha parlato di decisione “incredibile”, mentre la capogruppo di Alleanza Verdi Sinistra, Luana Zanella, l’ha definita “spiazzante” e “un atto giudiziario che legittima la violenza maschile sulle donne”.