Stupri di Palermo e di Caivano e Artemisia Gentileschi: la colpevolizzazione secondaria della vittima
La mostra fiorentina dedicata alla grande pittrice offre l'occasione per una riflessione circa la modernità della sua figura e su una società (tristemente) immutata
Al Museo di Michelangelo a Firenze, fino all'8 gennaio 2024, si terrà una mostra dedicata alla pittrice Artemisia Gentileschi e al dipinto dell’Inclinazione, la cui restaurazione è stata recentemente ultimata da Elizabeth Wick in un progetto finanziato da Calliope Arts e dal collezionista Christian Levett.
La tela, commissionata da Michelangelo Buonarroti il Giovane, fu una delle prime realizzate dall’artista nella città di Firenze, dove si trasferì da Roma nel 1613. Artemisia, nota alla cronache per aver subito uno stupro e aver portato in tribunale chi aveva abusato di lei, si presenta ora più che mai come una figura attuale.
Dopo la violenza sessuale, la donna subì una seconda aggressione: quella scaturita da pregiudizi e stereotipi. Oggi, 400 anni dopo, siamo punto e a capo: sui social come nella realtà, sono numerosi coloro che colpevolizzano la vittima e la sua famiglia. È proprio questo quello che è capitato alle protagoniste dei due casi di stupro di Palermo e Caivano, denunciati a pochi giorni di distanza l’estate scorsa.
Stupri di Palermo e Caivano: la colpevolizzazione della vittima
All’inizio di luglio, due ragazzine di 10 e 12 anni sono state violentate da un gruppo di adolescenti al Parco Verde di Caivano, in provincia di Napoli. Nello stesso periodo, sette ragazzi hanno picchiato e violentato una ragazza di 19 anni in un cantiere abbandonato del Foro Italico di Palermo. Vicende terribili, che hanno scosso l’opinione pubblica e sollecitato l’intervento della politica. Ma se per gli aggressori il giudizio è, ad ora in sospeso, la sofferenza delle vittime continua.
Da quando la sua identità è trapelata sui social – causa i video dell’abuso diffusisi sui media –, i profili TikTok e Instagram della giovane di Palermo si sono riempiti di commenti che vanno dai messaggi di solidarietà fino agli insulti più pesanti. Poi, la decisione di abbandonare le piattaforme: “Voglio concentrarmi sul non stare ancora male", ha scritto la ragazza che, nel frattempo, è stata trasferita in una comunità protetta per la sua sicurezza. "Purtroppo, continuo a ricevere ancora cose non solo positive che nonostante cerchi di rimanere nella indifferenza, di fatto non mi fanno stare bene. Vi prego di accettare la mia decisione se veramente ci tenete".
Profilo chiuso e commenti disattivati. Ma l’eco della giuria mediatica risuona ancora forte. “Ah ma fa i video su TikTok con delle canzoni oscene […], è normale che poi le succeda questo” oppure “Se non avessi pubblicato quelle foto su Instagram non ti avrebbero stuprata”. Sentenze pronunciate con una leggerezza allarmante che si mischiano alle dichiarazioni rilasciate dagli indagati in aula – “Era consenziente” – e a molti altri interventi pubblici, tutti volti a colpevolizzare la ragazza piuttosto che a condannare i giovani.
Per le ragazzine di Caivano, invece, sono soprattutto le famiglie ad essere vittime di insulti e intimidazioni. "Stiamo subendo minacce dal quartiere” dichiara la madre di una delle due cuginette violentate “hanno anche derubato mio figlio, quello che ha denunciato gli orrori, non mi sento al sicuro”.
Insomma, chi subisce una violenza in Italia diventa vittima due volte.
Lo stupro e il processo di Artemisia: una storia che si ripete
Succedeva già 400 anni fa alla pittrice Artemisia Gentileschi che, stuprata dall’amico di famiglia Agostino Tassi, dovette affrontare un processo lungo e umiliante, in cui venne data in pasto all’opinione pubblica.
«Diversi dissero molte cose della figlia del Gentileschi, […] e dicevano che non era zitella e che faceva servitio à qualcheduno, e questo disse haverlo sentito dir anco detto Angelo scultore, e cosi anco disse detto Mario […]» testimonia davanti alla corte Marco Antonio Coppini, frequentatore assiduo della bottega di Antinoro, dove queste voci sarebbero girate. False dichiarazioni, testimoni corrotti e tentativi di diffamazione. Per provare la veridicità della sua accusa, la Gentileschi dovette addirittura sottoporsi alla «tortura della Sibilla», rischiando di perdere le dita delle mani e, di conseguenza, la possibilità di dipingere ancora.
Alla fine, vinse il processo ma non si riprese mai più da quella violenza né tantomeno riuscì a far tacere quelle dicerie che la ritenevano colpevole di aver istigato il proprio stupratore. Agli occhi dei suoi concittadini rimase “una poco di buono” – espressione usata anche in riferimento alla ragazza di Palermo –, il cui onore era stato per sempre compromesso.
Dopo 4 secoli, la medesima mentalità
Quattro secoli dopo, siamo punto e a capo. In questa lotta contro la violenza di genere, l’Italia ha ancora tanta strada da fare – soprattutto a fronte delle condanne ricevute nel 2022 da parte della Cedu (che per quattro volte ha dichiarato l’Italia colpevole di non aver fatto quanto doveva per proteggere una donna dalla violenza del marito) e dal comitato Cedaw (che ha riconosciuto che gli stereotipi e i pregiudizi sessisti diffusi nei tribunali italiani violano il principio dell’uguaglianza delle donne davanti alla legge).
Nel passato come nel presente, “in Italia è ancora diffusa l'idea che le donne vittime di abusi siano in qualche modo colpevoli di aver provocato l'aggressione” come scrive anche il New York Times in un lungo articolo intitolato “Rape Cases Seize Italy’s Attention and Expose Cultural Rifts”. L'idea che il comportamento o l'abbigliamento di una donna possano scatenare la violenza permea anche i tribunali italiani dove – aggiunge il quotidiano americano – sessualità e violenza sessuale spesso non sono distinte.
Come combattere questa tendenza alla vittimizzazione secondaria?
“Educare i ragazzi al rispetto, non le ragazze alla prudenza” suggerisce la senatrice del Pd Cecilia D’Elia, intervenuta proprio in risposta alle numerose dichiarazioni pubbliche volte a colpevolizzare le ragazze violentate piuttosto che gli aggressori.
A cura di Sara Giovenzana