Che in Italia la politica non appassioni più moltissimi cittadini è cosa oramai risaputa (basta vedere i dati sulle affluenze sempre minori alle elezioni). Ma la politica è una parte fondamentale delle nostre vite e non possiamo abbandonarla. E allora, come si fa?
Paolo Cancelli, ministro Integrazione Culturale Nazionale e Internazionale Meritocrazia Italia, ci propone la sua ricetta per “ricostruire la politica”
Ricostruire la politica secondo Meritocrazia Italia
Ricostruire la politica significa innanzitutto riconoscere che essa entra in fermento ogni volta che una civiltà è costretta a interrogare se stessa. Ciò emerge con particolare criticità non nelle stagioni tranquille della stabilità, ma nei momenti di trasformazione radicale, quando il passato non basta più a spiegare il presente e il presente non è ancora capace di indicare il futuro. È in questi snodi della storia che riemerge la domanda di senso politico, come domanda primaria della vita collettiva: che cosa significa oggi governare una società complessa, interdipendente, attraversata da crisi globali e da nuove forme di vulnerabilità? Quale immagine dell’umano intendiamo assumere come fondamento dell’ordine sociale? Interrogarsi su questo non è esercizio teorico: è atto costituente. È il logos, la premessa di ogni possibilità di convivenza. Una polis definisce il suo proprium a partire dal modo in cui risponde a queste domande: da ciò dipende la sua capacità di custodire la memoria, di abitare il presente e di generare un futuro abitabile prendendosi cura dei popoli.
Se torniamo alle origini della nostra tradizione politica, la lezione della polis greca ci appare con una forza straordinaria. Le poleis non erano soltanto territori organizzati, né un insieme di leggi e magistrature; erano la forma simbolica attraverso cui una comunità esprimeva la propria concezione del bene, della giustizia, della dignità umana. Lì nacquero le categorie fondamentali della politica: cittadinanza, deliberazione, responsabilità, decisione comune. Erano categorie che non descrivevano un ordine dato, ma un ordine da costruire attraverso il confronto, il dialogo, il conflitto. La polis era un laboratorio di senso: un luogo in cui la tensione tra particolare e universale, tra diversità e unità, tra ragione e passioni veniva continuamente ricomposta in una forma politica capace di custodire l’umano nella sua interezza. La politica, in quel contesto, era un’arte alta, il tentativo di dare alla società non soltanto norme, ma significato.
L’intelligenza integrale
Nel mondo antico e poi ancora in quello moderno, testi come La Repubblica di Platonenon hanno mai mancato di svolgere il compito principale: quello di invitare a pensare sul destino della vita individuale e sociale degli uomini; un destino, secondo Platone, non prescritto e immutabile, ma da immaginare, argomentare, costruire. Il problema fondamentale resta oggi immutato: come costruire un ordine giusto in un mondo attraversato da tensioni? Come trasformare la conflittualità in coesione, senza cancellare la libertà? È da questi interrogativi che nasce la modernità politica. Eppure, il mondo per il quale queste categorie sono state pensate non è più il nostro. Le istituzioni nate per governare società relativamente stabili e circoscritte si trovano oggi a fronteggiare fenomeni inediti: la sovranità è divenuta multidimensionale e interdipendente; il potere circola in forme reticolari lungo coordinate transnazionali; il tessuto sociale è segnato da pluralità identitarie che si sovrappongono e si contaminano; la democrazia rappresentativa fatica a gestire problemi che superano i confini della nazione; la velocità delle trasformazioni tecnologiche supera i tempi della deliberazione politica; la società è attraversata da fragilità nuove che sfuggono alle categorie del passato. Il contratto sociale tradizionale, basato su un’immagine relativamente stabile del cittadino e dello Stato, non riesce più a contenere una realtà frastagliata, liquida, accelerata. Per ritrovare se stessa, la politica non può limitarsi a riformare procedure o correggere meccanismi. Deve ricostruire il proprio statuto culturale, rinnovare il proprio linguaggio, ripensare le proprie categorie fondative. Deve tornare a essere non solo tecnica di governo, ma arte del futuro: la capacità di immaginare ciò che ancora non c’è, ma può diventare. È qui che la nozione di intelligenza integrale assume un valore decisivo. L’intelligenza integrale non è un dispositivo intellettuale in più, né una branca della conoscenza; è una postura antropologica complessiva, un modo di abitare il mondo e di pensare l’umano dentro la complessità. Essa nasce dal riconoscimento che la realtà contemporanea non può più essere compresa attraverso sguardi parziali o categorie separate, perché i fenomeni non sono isolabili, le dimensioni non sono scindibili, i piani non sono indipendenti. Tutto è interrelato, e dunque tutto richiede un pensiero capace di integrare. L’intelligenza integrale è la capacità di tenere insieme ciò che la cultura moderna e l’iperspecializzazione hanno separato: analisi e visione, struttura e processo, individuo e comunità, locale e globale, razionalità e sensibilità, dati e valori.
Non è una semplice sintesi, ma una composizione dinamica, una forma di unità capace di accogliere la pluralità senza negarla. È uno sguardo polifonico, capace di riconoscere che la conoscenza non è mai unidirezionale, ma nasce dall’incontro tra prospettive molteplici. È una intelligenza che non teme la complessità, perché vede nella complessità non un ostacolo, ma il luogo stesso della verità. È un’intelligenza che non respinge il conflitto come minaccia, ma lo interpreta come possibilità generativa, spazio di rinnovamento e occasione per ripensare le forme della convivenza. Senza intelligenza integrale, la politica è destinata a inseguire la cronaca, a reagire all’emergenza, a perdere la profondità necessaria per orientare un mondo in trasformazione. Con l’intelligenza integrale, invece, la politica torna ad avere un orizzonte: diventa capacità di discernimento, di anticipazione, di progetto. Diventa in grado di cogliere le connessioni invisibili che tengono insieme i fenomeni; di comprendere che le crisi non sono mai isolate, ma intrecciate; di riconoscere che il futuro non è una proiezione lineare del presente, ma una possibilità da costruire attraverso visione, responsabilità e cooperazione. Ma c’è un elemento essenziale: l’intelligenza integrale non nasce dentro spazi chiusi, né dentro istituzioni autoreferenziali. Essa richiede contaminazione, dialogo, confronto strutturato. Nessuna istituzione — né università, né governo, né organizzazione culturale — può produrla da sé. È sempre il risultato di un ecosistema: di una rete sinfonica. La rete non è un accessorio funzionale, né un semplice strumento di coordinamento: è un ambiente cognitivo ed esistenziale. È l’ecologia in cui i saperi si incontrano, le prospettive si integrano, le visioni si articolano. È la nuova forma della polis: non un contenitore uniforme, ma una trama di relazioni vive, un intreccio dinamico di differenze che generano significato. Nelle reti istituzionali — composte da università, centri di ricerca, enti pubblici, organismi multilaterali, comunità territoriali, corpi intermedi, attori sociali — la politica ritrova la propria densità epistemica. La rete permette di comprendere la complessità, perché è complessa essa stessa; permette di affrontare l’interdipendenza, perché nasce dall’interdipendenza; permette di generare futuro, perché unisce memorie diverse in una visione condivisa. Non impone unità artificiale, ma costruisce connessione reale. Non cancella le differenze, ma le ordina in una composizione armonica. Non sostituisce il conflitto, ma lo trasforma in energia generativa.
Ed è proprio in questa prospettiva che si comprende l’essenza del movimento: ricostruire la politica attraverso la rete significa restituirle la sua dignità più profonda. La dignità della politica non è fatta di cerimonie, né di formule protocollari. Non è affidata alla retorica dei discorsi né alla solennità delle istituzioni. La dignità della politica deriva dalla sua capacità di essere all’altezza dell’umano: di comprendere la complessità senza semplificarla; di accogliere la pluralità senza dissolverla; di costruire futuro senza tradire la memoria. Una politica degna non si limita a gestire ciò che c’è: lo interpreta, lo trascende, lo progetta. Non galleggia sulla superficie degli eventi: scende nella profondità delle cause, risale verso le possibilità, immagina ciò che ancora non esiste.
In una rete autentica, la politica ritrova questa dignità perché ritrova il senso della sua missione. La rete rifiuta l’isolamento cognitivo, che è la radice dell’impoverimento politico. Supera la competizione sterile, che è il caricamento di energie verso l’autodistruzione. Trasforma l’interdipendenza da vincolo in risorsa. Cura la fragilità sistemica attraverso la cooperazione. Produce nuove forme di leadership capaci non di imporre, ma di ascoltare; non di controllare, ma di orientare; non di escludere, ma di generare.
Ed è allora che possiamo affermare, senza esitazione, che la politica è bella quando genera futuro. Quando rende pensabile ciò che sembrava impensabile, possibile ciò che appariva impossibile, condivisibile ciò che sembrava non conciliabile. È bella quando assume la responsabilità come forma suprema dell’umano. È bella quando costruisce istituzioni che non soffocano ma liberano, che non chiudono ma aprono, che non irrigidiscono ma sostengono. È bella quando riconosce nell’altro non un limite, ma una risorsa. È bella quando interpreta la diversità come occasione di crescita, non come minaccia. È bella quando diventa creatività istituzionale: la capacità di inventare nuove forme di coesione, nuovi modi di abitare i territori, nuove architetture democratiche, nuove modalità di cura dei beni comuni.
L’altissima politica è tale quando diventa cura del bene comune, non come gesto paternalistico, ma come atto di giustizia intergenerazionale. Quando comprende che il bene comune non è la somma degli interessi individuali, ma il luogo in cui le libertà si incontrano e si rafforzano reciprocamente. Quando promuove forme di convivenza che valorizzano le fragilità, che riconoscono le vulnerabilità, che non lasciano indietro chi è più esposto o più fragile. Quando si assume la responsabilità di edificare un mondo in cui ciascuno possa essere all’altezza della propria dignità sociale.
La politica diventa responsabilità condivisa: quando comprende che nessuna istituzione da sola può capire un mondo in cui tutto è connesso. Quando riconosce che solo un’intelligenza integrale, generata nella rete delle relazioni culturali, può orientare società complesse verso un futuro giusto, sostenibile, umano. Quando smette di inseguire la cronaca e ricomincia a generare storia. Perché la politica, nella sua essenza più profonda, non è potere: è servizio e responsabilità.
Non è competizione: è diaconia istituzionale e cooperazione. Non è gestione dell’esistente: è sapienza del futuro.
La politica che sogniamo è degna dell’uomo, al servizio dello sviluppo integrale della persona umana. E l’uomo è degno quando costruisce la storia non da solo, ma insieme.
