condanne confermate

Moglie del dissidente kazako rimpatriata con la figlia di 6 anni: per i giudici fu “sequestro di persona”

La Corte d’Appello di Firenze conferma le pene a cinque poliziotti: respinta la richiesta di assoluzione

Moglie del dissidente kazako rimpatriata con la figlia di 6 anni: per i giudici fu “sequestro di persona”

La Corte d’Appello di Firenze ha confermato le condanne nei confronti dei cinque funzionari della questura di Roma coinvolti nel rimpatrio di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, avvenuto nel 2013 insieme alla figlia Alua, allora di soli sei anni.

Per tutti l’accusa era di sequestro di persona. La procura generale e le difese dei cinque poliziotti avevano chiesto l’assoluzione perché “il fatto non sussiste”, ma nella mattinata di  giovedì 20 novembre 2025, la Corte d’Appello di Firenze ha confermato la condanna: 5 anni di reclusione per gli ex capi della squadra mobile e dell’ufficio immigrazione della questura di Roma, Renato Cortese e Maurizio Improta e gli ex funzionari di polizia Luca Armeni, Francesco Stampacchia; 4 anni invece per Vincenzo Tramma.

Moglie del dissidente kazako rimpatriata con la figlia di 6 anni: per i giudici fu “sequestro di persona”
Shalabayeva con la figlia oggi maggiorenne

Caso Shalabayeva: Corte d’Appello condanne per il rimpatrio

Il collegio giudicante ha ribadito le responsabilità già accertate in primo grado dal tribunale di Perugia, pur modificando parzialmente l’aspetto relativo all’interdizione dai pubblici uffici, che non sarà più perpetua ma limitata a cinque anni. Restano invece immutate le pene detentive e le statuizioni economiche, mentre viene confermata l’accusa di sequestro di persona legata alle irregolarità che avrebbero caratterizzato la procedura di espulsione.

L’iter processuale

La decisione giunge in un contesto processuale complesso, caratterizzato da continui ribaltamenti. Il procuratore generale di Firenze, Luigi Bocciolini, aveva chiesto l’assoluzione per tutti gli imputati, mentre le parti civili avevano insistito per la conferma delle condanne e per il riconoscimento dei risarcimenti. L’esito del giudizio fiorentino, pertanto, riapre una vicenda che negli anni ha suscitato ampio dibattito, sia sul piano politico sia su quello dei diritti umani.

La gratitudine di Shalabayeva

Dopo l’udienza, Alma Shalabayeva ha parlato di una decisione “difficile ma giusta”, sottolineando l’importanza che la giustizia abbia riconosciuto la fondatezza delle sue denunce nonostante si trattasse di contestare l’operato di alti funzionari dello Stato. Ha espresso gratitudine verso chi le ha dato fiducia, precisando che il riconoscimento ottenuto rappresenta per lei una forma di risarcimento morale dopo anni di sofferenza e incertezza.

Di tutt’altro avviso i difensori dei funzionari condannati. L’avvocato Bruno Andò, legale di Maurizio Improta, ha dichiarato che la sentenza li ha “scossi” e che la difesa ritiene gli imputati pienamente innocenti. Per questo annuncia un ricorso in Cassazione, una decisione confermata anche da Franco Coppi ed Ester Molinaro, difensori di Renato Cortese, secondo i quali l’esito del processo è “sorprendente”, considerata anche la richiesta di assoluzione avanzata dalla Procura Generale. Le difese sono dunque pronte a proseguire la battaglia legale nell’ultimo grado di giudizio.

La vicenda

La storia che ha portato alle condanne risale alla notte tra il 28 e il 29 maggio 2013, quando Shalabayeva fu condotta dalla Digos negli uffici dell’immigrazione per verificare la validità dei documenti con cui si trovava in Italia. Le autorità erano alla ricerca del marito, Mukhtar Ablyazov, oppositore del regime kazako e da anni al centro di tensioni diplomatiche.

Alla donna venne contestato il possesso di un passaporto ritenuto non autentico e, pochi giorni dopo, fu firmato il provvedimento di espulsione che portò al rimpatrio immediato di lei e della figlia. Solo successivamente, nel 2014, Shalabayeva poté rientrare in Italia e ottenere l’asilo politico, grazie alla mediazione dell’allora ministra Emma Bonino.

Le ripercussioni politiche

Angelino Alfano, all’epoca Ministro dell’Interno, era stato oggetto di dibattito e critiche in merito alla gestione del caso, poi definito dai giudici come un sequestro di persona.  Le opposizioni richiesero le sue dimissioni, ma una mozione di sfiducia nei suoi confronti fu respinta dal Parlamento.

All’epoca dei fatti, Renato Cortese era dirigente della Squadra Mobile romana e Maurizio Improta guidava l’Ufficio immigrazione, mentre Armeni, Stampacchia e Tramma ricoprivano il ruolo di funzionari collaboratori. Il primo processo celebrato a Perugia si era concluso con pene comprese tra quattro e cinque anni di reclusione. L’appello dinanzi alla Corte di Perugia, nel giugno 2022, aveva invece assolto tutti gli imputati “perché il fatto non sussiste”. Nel 2023 la Corte di Cassazione ha però annullato quelle assoluzioni, disponendo un nuovo appello: quello che ora si è concluso davanti ai giudici fiorentini con la conferma delle condanne.

Piantedosi difende i funzionari

Sul caso è intervenuto anche il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che pur ribadendo il rispetto per le decisioni della magistratura ha espresso la propria vicinanza ai funzionari condannati. Piantedosi ha definito la vicenda “estremamente complessa”, sottolineando come gli esiti giudiziari alterni testimonino le difficoltà che possono incontrare le forze di polizia nello svolgimento dei propri compiti.

Moglie del dissidente kazako rimpatriata con la figlia di 6 anni: per i giudici fu “sequestro di persona”
Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi

Secondo il ministro, i cinque imputati sono professionisti che hanno dedicato la propria carriera alla tutela della legalità, e per questo auspica che la Cassazione possa assolverli nell’ultimo grado di giudizio.