Oggi, martedì 25 novembre 2025, si celebra la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, istituita dalle Nazioni Unite nel 1999.
Memoria e responsabilità collettiva
La scelta di questa data non è casuale: ricorda il sacrificio e il coraggio delle sorelle Mirabal, tre attiviste dominicane – Patria, Maria Teresa e Minerva – brutalmente assassinate nel 1960 dal regime del dittatore Rafael Trujillo. Erano chiamate “mariposas”, farfalle, simbolo di libertà e resistenza. In loro memoria, ogni anno, il 25 novembre apre 16 giorni di attivismo contro la violenza di genere, che si concludono il 10 dicembre, Giornata Internazionale dei Diritti Umani.

In tutto il mondo, e anche in Italia, la violenza sulle donne resta una ferita aperta. Le scarpe rosse e le panchine rosse, sempre più visibili nelle città e nei cortili delle scuole, rappresentano le donne che non possono più camminare o sedersi accanto a noi. Sono simboli potenti, nati dall’opera dell’artista messicana Elina Chauvet, che nel 2009 espose a Ciudad Juárez 33 paia di scarpe rosse, in memoria di sua sorella e di tutte le vittime di femminicidio. Quei segni rossi, oggi diffusi ovunque, non parlano solo di morte, ma di responsabilità collettiva.
Secondo gli ultimi dati Istat, una donna su tre in Italia ha subito una forma di violenza fisica o sessuale almeno una volta nella vita. Sono circa 6 milioni e 400mila le donne coinvolte: spesso i responsabili sono i partner, i compagni, o le persone più vicine. Nel 2025 i femminicidi risultano in lieve calo, ma sono aumentati i tentativi di omicidio, gli accessi al pronto soccorso e le denunce. Dati che raccontano un fenomeno ancora radicato, sommerso e spesso sottovalutato, soprattutto quando la violenza non è visibile e si nasconde dietro una relazione tossica, la dipendenza affettiva o la rassegnata subordinazione.
Mattarella: “Parità significa educazione al linguaggio del rispetto”
A ricordare l’origine del 25 novembre è stato anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha rilasciato una dichiarazione ufficiale sul tema della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.
“In ogni ambito della vita sociale e privata, nelle case, nei luoghi di lavoro e negli spazi urbani, il principio della parità tarda ad affermarsi, limitando l’autonomia femminile, compromettendo la sicurezza delle donne, impoverendo il progresso della società. I teatri di conflitto armato, dove la violenza contro le donne viene utilizzata come strumento di intimidazione e oppressione, ne sono drammatico esempio”.

“Oggi assistiamo al dilagare di forme di violenza consentite dalla dimensione digitale, amplificate dalle dinamiche dei social network, con effetti tutt’altro che virtuali: umiliazioni, ricatti, coercizioni che portano, nei casi più gravi, ad aggressioni fisiche e femminicidi. Abusi che lasciano cicatrici profonde nel corpo e nella mente. In questo contesto, affatto indifferente è l’uso del linguaggio quando alimenta stereotipi, pretende di giustificare relazioni di dominio e comportamenti inaccettabili. Parità significa, prima di tutto, educazione al linguaggio del rispetto“.
“Nel 65° anniversario dell’assassinio delle sorelle Mirabal, torturate e uccise il 25 novembre 1960, nella Repubblica Dominicana – oggi, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne – la loro scelta di opporsi alla dittatura continua a ispirare intere generazioni, ricordandoci che libertà e protagonismo delle donne sono conquiste collettive da difendere e consolidare ogni giorno“.
La scuola: dove può nascere un cambiamento reale
Di fronte a tutto questo, emerge una verità essenziale: la violenza si combatte prima di tutto con la formazione, non solo con le leggi. La scuola, più di ogni altra istituzione, può diventare il terreno su cui costruire una nuova cultura delle relazioni, capace di prevenire gli abusi prima che si manifestino.
Fin dalla scuola dell’infanzia è possibile creare spazi educativi basati sull’ascolto, sulla cooperazione, sul confronto e sulla valorizzazione delle differenze. Parlare di emozioni, riconoscere la rabbia, imparare l’empatia e gestire i conflitti sono strumenti fondamentali per insegnare ai bambini e alle bambine che il rispetto non è un concetto astratto, ma un modo concreto di stare in relazione con gli altri.

Educare alla non violenza significa insegnare ai giovani che nessuna relazione può basarsi sul dominio o sul possesso. Significa anche offrire ambienti sicuri, con sportelli di ascolto e figure formate per intercettare i segnali di disagio. Per questo motivo è importante investire nella formazione dei docenti, nel sostegno psicologico e nella collaborazione con enti esterni come centri antiviolenza, servizi sociali e forze dell’ordine.
La scuola non può essere lasciata sola, ma deve essere messa in condizione di diventare una rete di protezione. Quando riesce a dialogare con le famiglie, a costruire percorsi continui e condivisi, a proporre laboratori e progetti sul rispetto di genere, allora può davvero diventare uno spazio di prevenzione, una barriera culturale contro la violenza.
Un dibattito necessario
Oggi, però, parte della società vede con sospetto l’educazione affettiva e sessuale nelle scuole, rivendicando un’esclusiva competenza familiare. Il DDL 2423 sul “consenso informato preventivo”, attualmente discusso in Parlamento, propone di richiedere un’autorizzazione scritta dei genitori per trattare temi legati alla sessualità, limitando di fatto le possibilità di intervento educativo su aspetti cruciali della crescita.
Questa impostazione rischia di privare proprio quei bambini e adolescenti che vivono in contesti familiari difficili della possibilità di comprendere, elaborare e difendersi da dinamiche relazionali malsane.
Educare ai sentimenti e al rispetto non significa sostituirsi alle famiglie, significa rafforzare la libertà di scelta delle persone, fornendo strumenti per riconoscere il pericolo e chiedere aiuto. Le forme di violenza, soprattutto psicologica, non si manifestano sempre con segni visibili; spesso agiscono in silenzio, logorano l’autostima, isolano, manipolano. La scuola può dare un nome a quel silenzio, e trasformarlo in consapevolezza.
La responsabilità educativa come strumento di libertà
Il Ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, in un video messaggio diffuso online nella giornata odierna, ha sottolineato che la lotta alla violenza di genere è “un obiettivo politico, nel senso più alto e civile del termine” e “un’urgenza imprescindibile per chiunque abbia a cuore il destino della polis, della convivenza civile e umana”.
Valditara ha ricordato che in molte scuole italiane sono già attivi percorsi formativi sulle relazioni e sul rispetto, e che i docenti cominciano a registrare cambiamenti positivi nei comportamenti dei giovani. Se questa direzione verrà sostenuta, potrà nascere un modello educativo basato sul dialogo e sul consenso, lontano dalla logica della sopraffazione e vicino alla dignità umana.
“Al centro del processo deve esserci quella scuola costituzionale che guarda ai valori fondamentali della nostra Carta, tra cui l’integrità della persona umana. L’educazione al contrasto della violenza di genere, proprio come obiettivi di apprendimento specifici. Nel 90 per cento delle scuole secondarie di secondo grado sono stati attivati questi percorsi e quasi il 70 per cento dei docenti ha riscontrato un’evoluzione positiva nei comportamenti degli studenti, un maggiore rispetto degli studenti verso le compagne. Abbiamo siglato protocolli per la formazione specifica dei docenti e per promuovere il peer tutoring. Un metodo educativo che rende gli studenti protagonisti attivi in un confronto tra pari”.
“Una ritrovata centralità del dialogo e del consenso, di quel potere creativo e razionale della parola che sta alla base della nostra civiltà può contrastare la subcultura della sopraffazione e del maschilismo. L’obiettivo resta l’eliminazione della violenza sulle donne, per far sì che davvero ogni persona abbia garantito il diritto fondamentale alla vita, alla libertà, alla sicurezza, all’autodeterminazione”.
La non violenza, dunque, non è un messaggio da ripetere una volta all’anno. È un lavoro quotidiano, lento, condiviso, che richiede formazione, investimento e fiducia. Ogni classe può essere il luogo in cui un pregiudizio cade, un dubbio viene accolto, una domanda trova ascolto. È da qui che può nascere una società più giusta, in cui ogni persona – donna, uomo, bambina o ragazzo – possa vivere senza paura, libera di crescere e di scegliere chi essere.
Il 25 novembre non è un punto di arrivo. È l’inizio di una responsabilità che dura tutto l’anno.