A Belém, nel cuore dell’Amazzonia, va in scena la fragilità di un ecosistema al limite, e la simultanea imponenza di una foresta che, malgrado tutto, resiste. È in questo scenario che cinquanta mila delegati provenienti da quasi duecento Paesi si sono riuniti per la COP30, una conferenza che avrebbe dovuto essere il decennale maturo dell’Accordo di Parigi.

Il videomessaggio del Papa, ha raccontato di un “creato che grida”, un’accusa morale contro negazionismi di ritorno e leadership assenti. L’assenza più pesante, quella degli Stati Uniti di Donald Trump, è stata letta da tutti come il simbolo di una stagione politica che sembra voler ignorare l’evidenza del cambiamento climatico.
Ma, al di là dei discorsi, ciò che colpisce in questa COP è la tensione permanente, la sensazione che ogni passo diplomatico possa trasformarsi in un inciampo. Le riunioni interne si susseguono con un’intensità quasi febbrile, mentre il presidente della conferenza, André Corrêa do Lago, tenta disperatamente di mantenere i negoziati su un binario che minacciava già di deragliare.
Un’Europa che arriva senza bussola
L’Unione Europea, che per anni ha recitato la parte della coscienza ecologica del pianeta, si è presentata a Belém come un gigante incerto. I suoi rappresentanti hanno ripetuto gli slogan della transizione verde, ma dietro il podio la realtà era un’altra: divisioni interne, un fronte politico indebolito, un’agenda ambientale logorata dalle contrapposizioni interne del Parlamento di Bruxelles.
L’assenza di Teresa Ribera, uno dei volti più autorevoli dell’ambizione climatica europea, ha pesato come un’ombra. A prendere il suo posto è stato il commissario Wopke Hoekstra, figura che suscita reazioni contrastanti, sia per il suo passato nel settore petrolifero sia per un approccio diplomatico molto meno conciliatorio di quanto molti si aspettassero in un appuntamento così cruciale.
L’Europa chiede più ambizione ma non trova l’accordo interno per proporre una linea unitaria. Difende la necessità di un testo forte sull’uscita dai combustibili fossili ma non riesce a mettere sul tavolo impegni finanziari credibili. Rivendica di essere motore della transizione, ma la realtà la costringe a fare i conti con una verità scomoda: questo motore si è inceppato.
Nel pratico: L’Ue è arrivata in Brasile disunita sulla proposta di uscita dal fossile: Francia, Spagna e Germania sono d’accordo, ma l’Italia resta una grossa voce fuori dal coro. I piani per la rendicontazione delle emissioni non sono stati presentati ufficialmente e solo pochi giorni fa il Partito popolare europeo si è allineato all’ultradestra per indebolire gli obblighi europei di rendicontazione sostenibile delle imprese.
E ci si chiede, oltre la retorica, L’Unione Europea appoggerà dunque la proposta brasiliana di una road-map per l’uscita dai combustibili fossili – il fulcro del negoziato?
Fratin, il volto italiano della COP30
In questo scenario, la figura del ministro italiano Gilberto Pichetto Fratin emerge in modo quasi inaspettato. E’ arrivato ieri, 18 novembre 2025, a Belém senza la premier Meloni, scelta che molti hanno interpretato come un segnale di scarso interesse politico.
Il ministro dell’Ambiente e della Transizione Energetica, espone una visione italiana che si muove in modo parallelo, e talvolta divergente, rispetto a quella dell’Unione Europea. Il suo discorso parte da un riconoscimento retorico dell’urgenza climatica, ma si sposta subito su un terreno che sa di pragmatismo ingegneristico: secondo Roma, la transizione energetica non può essere imprigionata in ciò che definisce “ideologie tecnologiche e che rischiano di danneggiare i sistemi economici e sociali”.
Al centro di questa visione, ha ribadito, c’è il principio della neutralità tecnologica, ritenuto “indispensabile”.
Fratin insiste sulla necessità di ampliare il ventaglio delle soluzioni, senza privilegiare solo elettrico, rinnovabili e idrogeno verde, ma includendo anche biocarburanti, cattura e stoccaggio del carbonio, e filiere industriali che l’Europa sta trattando con sospetto.
La sua iniziativa Belém 4X, lanciata proprio durante la COP30, punta a quadruplicare entro il 2035 l’uso dei biocarburanti sostenibili nel trasporto e nell’industria pesante. Secondo il ministro, questa strategia permetterebbe di accelerare la riduzione delle emissioni senza compromettere la competitività economica. La proposta ha attirato curiosità da parte di diversi Paesi del Sud del mondo, che vedono nei biocarburanti una via tecnologica meno costosa rispetto ai modelli di elettrificazione totale promossi dall’Europa settentrionale.
La giornata più intensa di Fratin, tuttavia, si consuma lontano dai riflettori, nella stanza blindata dove i negoziatori europei cercano di trovare un accordo interno sulla posizione dell’UE. Qui il ministro italiano si oppone apertamente alla richiesta di alcuni Stati membri di sostenere una formulazione rigida sul phase-out dei combustibili fossili. L’Italia, spiega, è favorevole a una “roadmap realistica”, ma non può accettare un testo che penalizzi tecnologie considerate strategiche per il suo sistema industriale ed energetico.
Partendo da questo programma, Pichetto ha firmato un’intesa con la ministra dell’Ambiente brasiliana, Marina Silva, per rafforzare la partnership strategica tra i due Paesi sullo sviluppo sostenibile.
La Cina e il paradosso del doppio ruolo
Mentre l’Occidente si dibatte nelle sue contraddizioni, la Cina avanza con cadenza costante. A Belém annuncia una riduzione delle emissioni tra il 7 e il 10 per cento entro il 2035, un impegno che appare modesto rispetto alle richieste scientifiche, ma che non riesce a nascondere un fatto incontestabile: Pechino è ormai il cuore pulsante della produzione globale di tecnologie green.

Questo paradosso – primo inquinatore ma anche primo costruttore del futuro energetico – domina discussioni e analisi, alimentando un dibattito sotterraneo: la transizione, ormai, non è solo una questione ambientale, ma un terreno di competizione geopolitica.
Al contrario gli Usa hanno segnato con la loro assenza alla COP 30, un grande ritorno al passato. Donald Trump ha cancellato i tentativi politici delle Amministrazioni democratiche precedenti per contrastare i cambiamenti climatici e preme per uno sviluppo sempre più forte delle energie fossili. Gli Stati Uniti rappresentano il secondo inquinatore mondiale dopo la Cina e questa presa di posizione del tycoon crea inquietanti incertezze sulle emissioni future del Paese e sulla già cagionevole salute del Pianeta.
Il Brasile irritato dalla Germania: la polemica Merz
Come se le tensioni non bastassero, esplode il caso Merz. Il cancelliere tedesco, parlando a Berlino, descrive Belém come un luogo dal quale era stato felice di “tornare alla civiltà”.
Un commento che in poche ore si trasforma in una tempesta diplomatica. Il Brasile reagisce con durezza, la First Lady Janja da Silva attacca il leader tedesco, mentre Lula definisce Berlino “un luogo che non offre nemmeno il dieci per cento di ciò che offre il Pará”. È un incidente che rivela tutta la sensibilità del Paese ospitante, orgoglioso della propria Amazzonia e determinato a difenderne l’immagine.
La bozza di accordo e la fragilità del consenso
La presidenza brasiliana della COP30 ha diffuso nelle ultime ore una prima bozza di accordo, un documento di nove pagine battezzato “Global Mutirão” — un riferimento, non casuale, al concetto indigeno di lavoro collettivo per un fine comune.
Il documento affronta tre grandi fronti, quelli che stanno paralizzando i negoziati: il phase-out dei combustibili fossili, la finanza climatica e il nodo delle misure commerciali come la carbon tax europea (CBAM).
Sul tema più esplosivo — l’uscita dai combustibili fossili — il Brasile propone due strade: da una parte una “roadmap” chiara e vincolante, sostenuta da Unione Europea, Stati insulari e Paesi più vulnerabili; dall’altra opzioni molto più blande, preferite dalle nazioni esportatrici di petrolio, che parlano solo di “soluzioni a basse emissioni”, “workshop informali” o “tavole rotonde ad alto livello”. In altre parole: un percorso possibile verso il phase-out, e un altro verso il rinvio.
Il capitolo sulla finanza climatica è altrettanto delicato. La bozza mette nero su bianco una richiesta che circola da mesi tra i Paesi in via di sviluppo: triplicare i fondi per l’adattamento entro il 2030 o il 2035. È uno dei punti più controversi, perché chiama direttamente in causa le grandi economie che storicamente hanno emesso di più. Non è una formula chiusa, ma un ventaglio di opzioni che riflette la difficoltà di far convergere Nord e Sud globale su cifre che valgono centinaia di miliardi l’anno.
Un altro nodo è quello delle misure commerciali unilaterali, con riferimento diretto al meccanismo europeo CBAM. La bozza presenta quattro ipotesi, che vanno dal semplice richiamo alla necessità di “coerenza” tra politica climatica e commercio fino alla proposta — decisamente più ambiziosa — di organizzare un vertice guidato dal Segretario generale dell’ONU dedicato proprio alle dispute commerciali generate dalle politiche ambientali. Un segnale molto chiaro: la dimensione economica della transizione sta diventando uno dei terreni di scontro più duri.
Non manca infine una proposta che potrebbe diventare storica: la revisione annuale degli impegni nazionali di riduzione delle emissioni (NDC). Oggi il ciclo è quinquennale. L’idea di “accorciarlo” sarebbe un modo per aumentare la pressione politica e verificare con maggiore frequenza se il mondo si avvicina o si allontana dalla traiettoria degli 1,5 gradi. Una richiesta sostenuta dai Paesi più vulnerabili, ma vista con molta cautela da diverse economie sviluppate.
Il numero di parentesi aperte e alternative ancora sul tavolo conferma che l’accordo è tutt’altro che vicino. E che nei prossimi giorni Belém potrebbe diventare il palcoscenico di uno dei negoziati più difficili dell’ultimo decennio.
La COP30 di Belém lascia l’impressione di una comunità internazionale che fatica a tenere insieme i propri pezzi. Ci sono Paesi che chiedono giustizia climatica, altri che difendono modelli economici costruiti sul fossile, altri ancora che avanzano proposte tecniche come se la transizione fosse un laboratorio neutrale. E c’è un’Europa che appare più incerta che mai.
In mezzo, l’Italia pare giocare una partita tutta sua. Resta da capire se questo mosaico di posizioni troverà una sintesi.