Il “piano Trump” per Gaza, accolto con favore dal premier israeliano Benjamin Netanyahu, si sta rivelando un terreno scivoloso. Se da un lato il documento presentato da Washington promette tregua, ricostruzione e una graduale uscita delle forze israeliane, dall’altro Netanyahu e i suoi alleati di governo ne hanno rimodellato l’impianto fino a trasformarlo in un accordo a misura d’Israele.
Veto assoluto allo Stato palestinese
Il primo ministro, pressato dall’ala ultranazionalista del suo esecutivo, ha ribadito che l’esercito israeliano “resterà nella maggior parte della Striscia di Gaza”, contraddicendo apertamente le previsioni di ritiro graduale incluse nella versione aggiornata del piano americano.
Secondo la mappa allegata al documento, le truppe dovrebbero ripiegare in tre fasi, lasciando spazio a una Forza Internazionale di Stabilizzazione composta da paesi arabi e musulmani. Ma Netanyahu ha chiarito che, anche oltre i tempi del ritiro, Israele manterrà una presenza permanente all’interno di una “zona cuscinetto di sicurezza” lungo tutto il perimetro della Striscia.
Sul fronte politico, il premier ha posto un veto assoluto a qualsiasi ipotesi di Stato palestinese. In un video diffuso ieri ha affermato:

“Non lo accettiamo assolutamente, e non è nemmeno scritto nell’accordo. Siamo fermamente contrari a uno Stato palestinese“.
Una posizione che, oltre a rassicurare la destra più estrema, sembra smontare il possibile “percorso credibile verso l’autodeterminazione” del popolo palestinese, subordinato a riforme interne dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).
Ma anche qui, le condizioni poste rischiano di svuotare di senso qualsiasi prospettiva di ritorno dell’ANP a Gaza. La bozza aggiornata prevede infatti che l’Autorità palestinese potrà subentrare solo dopo aver completato una serie di riforme, tra cui l’abbandono di tutte le cause legali intentate contro Israele e Stati Uniti presso la Corte Internazionale di Giustizia e la Corte Penale Internazionale. In sostanza, Ramallah dovrebbe rinunciare a ogni azione internazionale a difesa dei diritti palestinesi prima di essere considerata “idonea” a governare la “Nuova Gaza”.
Un compromesso sbilanciato
Il piano Trump si presenta quindi come un compromesso sbilanciato: da una parte la promessa di liberazione degli ostaggi e di una ricostruzione finanziata dai partner internazionali, dall’altra il disarmo totale di Hamas, l’esilio dei suoi leader e l’esclusione di ogni scenario di autodeterminazione palestinese.
Intanto, Netanyahu rivendica di aver isolato Hamas e di avere per la prima volta in due anni gran parte del paese al suo fianco. Ma mentre Smotrich e Ben Gvir gridano al “fallimento diplomatico” e Hamas prende tempo per valutare la proposta, resta la sensazione che nonostante l’accordo, Gaza possa rimanere sotto controllo israeliano, cancellando ogni prospettiva di uno Stato palestinese indipendente.