Dazi USA, l’Italia rischia perdite fino a 12 miliardi
Gli Stati Uniti rappresentano il secondo mercato di sbocco per le esportazioni italiane. Il governo si prepara a una fase di negoziazioni

Mentre cresce la tensione tra Washington e i principali partner commerciali globali, l’Italia osserva con crescente preoccupazione i prossimi provvedimenti dell’amministrazione Trump. Le ultime mosse del tycoon hanno già fatto tremare i mercati: dazi fino al 35% contro il Canada dal primo agosto, minacce di aumenti generalizzati del 15-20% verso altri Paesi e una decisione in sospeso per l’Unione Europea, preannunciata come “imminente”.
Se tali misure dovessero concretizzarsi, per l’Italia il danno potrebbe essere ingente. Secondo le stime dell’Ufficio studi della CGIA di Mestre, elaborate sulla base dei dati Ocse, i dazi attualmente ipotizzati da Washington potrebbero costare al nostro Paese fino a 12 miliardi di euro di mancate esportazioni, qualora le tariffe doganali venissero portate al 20%. Anche nella migliore delle ipotesi – mantenendo le tariffe attuali – l’impatto si attesterebbe comunque attorno ai 3,5 miliardi di euro.
La vocazione esportatrice dell'Italia
Gli Stati Uniti rappresentano il secondo mercato di sbocco per le esportazioni italiane, con un volume d’affari di 64,7 miliardi di euro nel 2024, pari al 9% dell’export nazionale. Le categorie più esportate includono prodotti chimici e farmaceutici, autoveicoli, navi e imbarcazioni, e macchinari industriali, che da soli costituiscono oltre il 40% delle vendite italiane negli USA.
A livello territoriale, Milano guida la classifica con 6,35 miliardi di export verso gli USA, seguita da Firenze (6,17), Modena (3,1), Bologna (2,6) e Torino (2,5). Queste cinque province da sole generano quasi un terzo delle esportazioni italiane oltreoceano.

L’introduzione di dazi penalizzanti colpirebbe in modo diseguale il tessuto produttivo italiano. Le regioni meridionali, infatti, presentano una scarsa diversificazione dell’export, rendendole più vulnerabili a shock settoriali. In Sardegna, ad esempio, il 95,6% dell’export si concentra nella raffinazione del petrolio. Seguono Molise (86,9%) e Sicilia (85%), entrambi dipendenti da pochi comparti chiave.
Fanno eccezione la Puglia, che con un indice di diversificazione del 49,8% risulta tra le regioni meno a rischio, e gran parte del Nord, che mostra una maggiore resilienza. In particolare, Lombardia (43%), Veneto (46,8%), e Trentino-Alto Adige (51,1%) presentano una struttura export più bilanciata.
Quali margini di tenuta per le imprese italiane
Le imprese italiane non sono del tutto impreparate. Secondo la Banca d’Italia, il 43% delle esportazioni verso gli USA riguarda prodotti di alta qualità e un ulteriore 49% di fascia media: beni diretti a consumatori e imprese con alta capacità di spesa, meno sensibili all’aumento dei prezzi.
Inoltre, il mercato statunitense rappresenta in media solo il 5,5% del fatturato totale delle imprese italiane esportatrici, che possono quindi assorbire una parziale contrazione della domanda. Il margine operativo lordo medio del 10% consente in molti casi di contenere l’aumento dei prezzi riducendo i margini.
Uno scenario denso di incognite
Il governo italiano, come il resto dell’UE, attende sviluppi ufficiali da Washington, mentre Bruxelles si dice pronta a un accordo “di principio”, pur senza certezze su tempi e condizioni. Nel frattempo, si moltiplicano gli interrogativi per le aziende italiane: i consumatori americani continueranno a scegliere il Made in Italy o si rivolgeranno altrove? E le imprese italiane saranno in grado di mantenere la competitività senza sacrificare troppo i profitti?
Nel frattempo, il premier canadese Carney ha annunciato una linea dura ma aperta al negoziato, mentre il Brasile – minacciato da dazi al 50% – ha già avvertito che risponderà con misure equivalenti. La diplomazia commerciale è in pieno fermento, e l’Italia, forte della qualità della propria offerta, si prepara a una fase di negoziazioni difficili, con in palio miliardi di euro e il destino di intere filiere produttive.